REGGIO CALABRIA Una narrazione densa di contenuti che tocca diversi decenni e misteri della storia d’Italia. Sono i temi attraversati in sintesi dalla prima parte della deposizione del vicequestore Dia Michelangelo Di Stefano, oggetto dell’udienza di questo 17 febbraio nel secondo grado del processo “’ndrangheta Stragista” davanti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.
In prima istanza, il presidente Bruno Muscolo (a latere Giuseppina Campagna) dà atto dell’accoglimento della richiesta fatta alla scorsa udienza dal procuratore generale Giuseppe Lombardo di sospendere i termini di custodia cautelare a fronte della riapertura dell’istruttoria dibattimentale ordinata dalla Corte sempre su richiesta della Pg. «In ragione della complessità e lunghezza dei tempi del giudizio di impugnazione», la motivazione.
Collegati in remoto dalle rispettive carceri dove si trovano detenuti sono i due imputati Giuseppe Graviano, boss del rione Brancaccio di Palermo, rappresentato in giudizio dall’avvocato Salvatore Staiano e Santo Rocco Filippone, ritenuto espressione dei “Piromalli” di Gioia Tauro quale esponente della ‘ndrina di Melicucco, rappresentato dall’avvocato Giuseppe Aloisio. I due risultano condannati all’ergastolo in primo grado in qualità di mandanti del duplice omicidio consumato il 18 gennaio 1994 nei confronti dei due carabinieri Vincenzo Fava e Antonino Garofalo nei pressi dello svincolo autostradale di Scilla. Un fatto che secondo l’accusa non può essere letto in forma disgiunta dal contesto nel quale è maturato, per l’appunto i primi anni 90, la così detta epoca stragista dietro alla quale incombe la figura dell’allora capo di Cosa Nostra Salvatore “Totò” Riina. Ma anche qualcosa in più, da ricercarsi nella rilettura approfondita dei rapporti maturati negli anni tra la mafia siciliana, la ‘ndrangheta e pezzi «deviati» dei servizi segreti.
Prima dell’inizio della deposizione del vicequestore Di Stefano, il giudice Muscolo rende noto alle parti di aver ricevuto una lettera proveniente dalla Casa circondariale di Parma a firma Domenico Papalia. “Mico”, indicato da alcuni collaboratori di giustizia in questo dibattimento come il «vertice nazionale della ‘ndrangheta» si trova ristretto nel carcere emiliano a fronte della condanna ricevuta nel processo per l’omicidio di Umberto Mormile avvenuto l’11 aprile 1990. Una delle vicende richiamate anche in “’ndrangheta stragista” dove il nome del boss è tornato più volte. «Vorrei fare – scrive Papalia, detenuto dal 1977 – delle osservazioni sulle false dichiarazioni dei così detti collaboratori di giustizia citati nel presente procedimento, in primo grado e ora in sede di Appello».
Coloro i quali avrebbero pronunciato «falsità» a detta di Papalia sarebbero Antonino Cuzzola, Vittorio Foschini e Nino Fiume. «Sono in carcere da 45 anni e se collaborassi coi Servizi segreti non sarei ancora qui con la certezza di finire i miei giorni in carcere», scrive il boss. Papalia continua affermando di non aver mai conosciuto Nino Fiume come da questi dichiarato. «Non escludo – aggiunge – che abbia potuto accompagnare qualche volta Giuseppina De Stefano a Platì e passare da casa mia».
Nella lettera Papalia non solo cerca di smentire i suoi rapporti coi Servizi, ma anche il passaggio dei verbali di Cuzzola e Foschini «nel processo per l’educatore Mormile» dove dichiarano che Rocco Papalia, fratello del boss «dopo l’omicidio ha telefonato o fatto fare una telefonata rivendicativa dell’omicidio a nome della “Falange Armata”». Affermazione che secondo “Mico” Papalia non sarebbe fondata «perché è stato accertato che la prima rivendicazione dell’omicidio Mormile a nome della “Falange Armata” risale al 27 ottobre 1990». Papalia torna a dire che la “Falange Armata” nulla avrebbe a che fare «con l’omicidio Mormile e non solo». Altro “obiettivo” della missiva di Domenico Papalia è il collaboratore di giustizia Annunziato Romeo, che sarà ascoltato nelle prossime udienze proprio a fronte della riapertura del dibattimento. «Sono in carcere da mezzo secolo – scrive – e non vedo come si possa dare credito a Romeo che sono al vertice nazionale della ‘ndrangheta». Secondo quanto scrive il boss non esisterebbero elementi che danno conoscenza di un «organismo» quale il vertice nazionale della mafia calabrese e, laddove esistesse, «non verrebbe certo affidato a un pastore ignorante d’Aspromonte con tante menti raffinate in tali organizzazioni».
«Si tratta di approfondimenti di indagine che sono andati indietro nel tempo e che vanno oltre le normali pratiche della polizia giudiziaria», dice alla Corte il vicequestore Di Stefano all’inizio dell’esame durato circa quattro ore. Un’attività resa possibile anche grazie all’acquisizione di documenti «obsoleti, ma resi disponibili in alcuni archivi privati» ai quali è stato possibile attingere «per fare una ricostruzione storico-giudiziaria dei temi affrontati nel processo». Proprio l’omicidio Mormile e la figura di Domenico Papalia sono in cima alla lista dei temi oggetto della trattazione in una delle prime slide preparate dal teste. Segue l’approfondimento intorno alla sigla “Falange armata” – che sarà più specifico oggetto della prossima udienza – utilizzata per rivendicare le cosiddette “stragi continentali”, il rapporto tra i servizi segreti e la ‘ndrangheta declinato attraverso una serie di figure e vicende: Vittorio Antonio Canale, ritenuto espressione dei “De Stefano” e per anni latitante in Costa Azzurra, Antonino Gioè quale responsabile della strage di Capaci, il paracadutista morto suicida in Somalia Vincenzo Li Causi, tra le varie comandante del Cas (centro addestramento straordinario) “Scorpione” di “Gladio” a Trapani, quello stesso che «faceva riferimento ad un vecchio aeroporto in disuso prospicente alla contrada» dove aveva sede l’associazione di Mauro Rostagno, anch’egli morto in circostanze non del tutto chiare. Una lunga scia di avvenimenti che porta fino al presunto attentato avvenuto nel 2004 a Palazzo San Giorgio – segnalato dal Sismi – ai danni dell’allora sindaco Giuseppe Scopelliti, dove sarebbe stato utilizzato il tritolo estratto dal relitto “Laura C” (nel caso di specie, senza innesco).
Morti misteriose, spesso bollate come suicidi, ma che le indagini risolvono in punti interrogativi. Come quella di Antonino Gioè nel 1993. Il ritenuto responsabile della strage di Capaci viene trovato suicida a luglio 1993 nello stesso carcere dove si trovava Salvatore Riina, per il quale era stata fatta richiesta di trasferimento. In quello stesso periodo – ricorda il teste – si discute del così detto «summit di Nizza» finalizzato a organizzare l’evasione di Riina in elicottero col presunto aiuto del Sisde (presente, secondo quanto ricostruito, l’ex agente Sismi Antonio Broccoletti) e con la partecipazione di alcuni esponenti della ‘ndrangheta reggina quali Vittorio Canale e Antonio Libri. Alla morte di Gioè viene trovata nella sua cella nel carcere di Rebibbia una lettera autografa dove viene fatto riferimento a Domenico Papalia «e a una malleva che vantava nei suoi confronti qualora avesse fatto dichiarazioni contro di lui». Viene mostrato un frammento di questa lettera dove Gioè si scusa con Papalia, che «mai gli avrebbe confessato, durante la comune permanenza in carcere, di essere colpevole dell’omicidio per il quale era stato condannato». Nella lettera, tuttavia «si rilevano una serie di anomalie», a detta di Di Stefano. Anzitutto «dal punto di vista linguistico e grafico» come dimostrato anche dalle perizie e in secundis sul luogo del ritrovamento: la scrivania sulla quale gli agenti sarebbero saliti per raccogliere il cadavere di Gioè dopo l’impiccagione.
Pochi giorni dopo, il primo agosto 1993 da alcuni documenti emerge del trasferimento di Vincenzo Li Causi ad altra sezione del Sismi. Nel riprendere una consulenza dello storico ed esperto del tema Giuseppe De Lutiis, Di Stefano evidenzia una possibile appartenenza dello stesso Li Causi alla così detta «loggia “scontrino”». Altro punto oscuro riporta alla data del 20 marzo 1994, quella della morte dell’inviata Rai Ilaria Alpi (assassinata insieme all’operatore Miran Hrovatin) che prima di allora «avrebbe avuto diversi contatti con lo stesso Li Causi». Il funzionario Dia tratteggia poi lo scenario in cui potrebbe essere stato assassinato l’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, Lodovico Ligato. Il potente esponente democristiano, ucciso da due sicari della ‘ndrangheta con una pistola Glock 18 parabellum, probabilmente «implicato – dice – in un traffico d’armi con un imprenditore libanese di origini palestinesi».
La lunga disamina porta fino al presunto attentato del 2004 a Palazzo San Giorgio. «Abbiamo messo da parte eventuali strumentalizzazioni mediatiche intorno alla vicenda – dice il funzionario Dia – seguendo la pista che porta a possibili strumentalizzazioni per fini politici da parte del sindaco dell’epoca (Giuseppe Scopelliti, ndr)», così richiamando alcune recenti esternazioni dei pentiti anche in altri processi. Sul posto sono stati rinvenuti diversi quantitativi di tritolo «identici» a quelli contenuti nella “Laura C”. La prossima udienza che vedrà il prosieguo dell’esame del vicequestore Di Stefano è fissata al 24 febbraio. (redazione@corrierecal.it)
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