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«Forni della pizza come bunker. Così prendiamo i boss latitanti». Le Monde racconta i “Cacciatori”

Le foto come trofei dopo la cattura. La storia del carabiniere divenuto “Leggenda” a Platì. Rinascita Scott e il nascondiglio già pronto per Mancuso. E l’Americano arrestato con l’hamburger in tavola

Pubblicato il: 18/02/2022 – 7:20
«Forni della pizza come bunker. Così prendiamo i boss latitanti». Le Monde racconta i “Cacciatori”

LAMEZIA TERME «Hanno del genio, continuano a sorprenderci con le loro capacità di nascondersi», ammette uno dei giovani “Cacciatori” durante una pausa caffè, ancora armati, in un villaggio di montagna. «Quando vedi una lastra di piastrelle che scende sottoterra come un ascensore, un forno per pizza costruito come nascondiglio, o un tunnel scavato in un pozzo, non puoi non essere stupito». Nelle tante dei latitanti si trovano immagini sacre come quella della Madonna di Polsi, qualche ricordo della vita lussuosa prima della fuga. «Oppure un codice penale italiano, lettura utile per preparare la propria difesa, non si sa mai…». Le Monde entra nei bunker della ‘ndrangheta con un reportage sul lavoro dei Cacciatori dei carabinieri. Li racconta tra le strade impervie dell’Aspromonte, dove scrutano silenzi alla ricerca di qualcosa di insolito nel panorama. Accanto a un cumulo tra le felci l’inviato del quotidiano francese scopre quello che per un anno e mezzo, dall’autunno 2016 al marzo 2018 è stato il mondo del boss Girolamo Facchineri. Un posto in cui «non vengono neanche i lupi», brontola uno dei carabinieri. Eppure in quella tana il boss nascosto aveva la propria fortezza: lì aveva installato addirittura dei pannelli solari e un sistema d’allarme rudimentale, creato usando fili elettrici collegati a un clacson. C’erano un binocolo per la visione notturna e una pistola per scacciare gli animali.  

I 305 latitanti catturati. «In fuga continuano a dirigere i clan»

Nella sede spartana dei Cacciatori le 305 “prede” catturate appaiono in ordine cronologico di arresto. È, scrive Le Monde, «una storia della ‘ndrangheta riassunta in foto segnaletiche». «Nel 1991, lo squadrone è stato creato per trovare le vittime dei rapimenti in Aspromonte», dice Ivan D’Errico, il giovane comandante, unico autorizzato a parlare a nome della squadriglia. Erano i tempi in cui rapimenti per le richieste di riscatto costituivano il core business dei clan calabresi. Ma «dalla fine degli anni ’90, la ‘ndrangheta ha assunto una dimensione diversa, in particolare grazie ai proventi del traffico di cocaina. Il nostro ruolo ha dovuto adattarsi. Rintracciare i latitanti è diventata la nostra missione prioritaria. Questi uomini in fuga sono lontani dall’essere fuori dal quadro di comando dell’associazione. Al contrario: anche se devono accontentarsi di uno spazio di 5 metri quadrati, continuano a tirare i fili del dell’organizzazione». 

«La latitanza – spiega Antonio Nicaso – è l’essenza del potere della ‘ndrangheta. Questi uomini sono disposti a vivere sottoterra, come talpe, ma non possono rinunciare al diritto di avere l’ultima parola. Il bunker legittima l’idea di una mafia che soffre, ma non rinuncia al suo territorio». La priorità dei fuggitivi è quella di «non rompere mai il legame con gli uomini di fiducia. Sono soprattutto i “capi” che devono stare fermi», continua Nicaso. Finanziatori e trafficanti, invece considerano il bunker come ultima risorsa. Preferiscono i paradisi fiscali, l’anonimato delle grandi città, o anche la campagna del Sud America.

«Cultura del bunker diversa tra ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra»

Il reportage riporta alla memoria un’intercettazione della polizia nel 2010, effettuata nell’ambito di dell’inchiesta “Reale”. Mostra un’accesa discussione tra due amici boss, Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara – quest’ultimo convinto convinto della necessità imperativa per avere un rifugio sicuro. «Devo fare un bunker – dice Ficara – Hai qualcuno? Ho letto sui giornali che siete esperti in queste cose! (…)». «Trovate la casa e io manderò il muratore!». Poi venne la pianificazione del sito, la scelta di un saldatore, Prima di concludere con questa raccomandazione: non dimenticare l’uscita di emergenza
«La cultura del bunker è diversa tra la ‘Ndrangheta, la Camorra e Cosa Nostra», sottolinea Lorena Di Galante, responsabile dell’ufficio indagini giudiziarie della Direzione Investigativa Antimafia. È in Calabria dove è più saldamente radicata perché i legami familiari sono più forti di qualsiasi. Qui non si tratta di costruire ville kitsch con lusso ostentato, come a Napoli. La parola d’ordine è mantenere un basso profilo. Ogni anno di latitanza», sottolinea la poliziotta, «rafforza il prestigio del fuggitivo». 

Il rituale: «Prendiamo sempre una foto della cattura come trofeo»

Cosimo Gallace, condannato a quattordici anni di reclusione, è l’ultimo noto latitante calabrese ad essere stato catturato in un bunker “urbano”, il 7 ottobre 2021. È un giovedì e il Gruppo d’Intervento Speciale (un’altra unità d’élite dei carabinieri) fa irruzione nell’appartamento della famiglia, nascosto in una fabbrica di cemento a Isca sullo Ionio. A prima vista, sua moglie e sua figlia di 4 anni sembrano essere sole in camera da letto. Infatti, Gallace è nel suo rifugio, incastrato in un falso muro lungo il letto, sotto lo specchio. I “cacciatori”, arrivati nell’appartamento in un secondo momento, hanno subito individuato il meccanismo: integrato nel pomello centrale dell’appendiabiti, faceva scattare l’apertura del nascondiglio, per aprire il rifugio. Come in più del 90% delle operazioni effettuate dal operazioni, Gallace è stato catturato senza che venisse sparato un solo colpo. Uno dei cecchini dello squadrone ammette che il suo cannocchiale è usato più per localizzare la sua preda che per neutralizzarla. «Di solito, quando i latitanti vengono catturati, lo accettano», spiega un altro ufficiale. Hanno giocato, hanno perso. «Abbiamo quindi una sorta di rituale: possiamo farli vestire, a volte radersi o fumare una sigaretta, ma prendiamo sempre una foto della nostra cattura come come trofeo», spiega.

Storia di una “leggenda”. «Sono Michele, dei Cacciatori»

Le Monde racconta anche la storia di chi, tra i berretti rossi dei Cacciatori, viene chiamato “la leggenda”. È il maresciallo Michele Palumbo, un uomo la cui storia è inseparabile da quella di Plati, dove per più di venti anni ha dato la caccia a latitanti che qui avevano un potere sconfinato. Quando “la Leggenda” è arrivata in quella che definisce «la città che non parla», erano ventiquattro i latitanti. Ufficialmente, non ne è rimasto nessuno. Palumbo, figlio di un muratore, formato nei cantieri, si affida al suo naso piuttosto che ai georadar e altri gadget moderni. Non rivelerà niente di specifico sulle sue tecniche all’antica: dice solo che con un semplice coltello passato sopra una superficie bagnata può individuare i nascondigli incorporati nel cemento.
«Sei tu, Michele?», sono a volte le ultime parole dei fuggitivi prima di arrendersi, quando sentono di essere stati individuati dietro la parete divisoria da “la Leggenda” in persona. Palumbo ricorda gli attacchi di panico di alcuni nel momento della cattura, ma anche della telefonata che un capo gli chiese di fare a sua madre malata per avvertirla che stava andando in prigione: «Ho detto a malapena: “Sono Michele, dei cacciatori”, ha capito la situazione e ha iniziato a piangere». 

La fuga di Fazzalari: vita da topo con champagne e sigari cubani

A volte è più complicato di così. Come nel caso di Ernesto Fazzalari, all’epoca uno dei latitanti più pericolosi d’Italia, killer nella faida di Taurianova. Fazzalari, in fuga dal 1996, è sfuggito ai berretti rossi nel gennaio 2004. Nel suo primo rifugio, il boss viveva come un topo ma si assicurava di avere una scorta di Champagne Dom Pérignon e sigari cubani. Dietro un’apertura a forma di oblò c’è il tunnel che ha usato per strisciare e sfuggire al blitz. È emerso, 25 metri più avanti, attraverso un’apertura, in un campo. Nel giugno 2016, è stato avvistato di nuovo. Il suo nascondiglio era una casa gialla con persiane rosse in un borgo di montagna, alla fine di una strada senza uscita. È lì che i Cacciatori lo hanno catturato dopo controlli catastali e seguendo i movimenti dei familiari. 

Rinascita Scott e il bunker già pronto per la fuga di Luigi Mancuso

Anche la storia del blitz Rinascita Scott ha a che fare con la latitanza. «Fin dall’inizio ci siamo mossi per evitare che gli imputati sparissero», sottolinea il colonnello Bruno Capece, comandante Provinciale dei Carabinieri di Vibo, abituato a cacciare «fantasmi», come li chiama lui. «Nel dicembre 2019, il raid, che ha mobilitato 3.000 agenti di polizia e carabinieri, è stato anticipato di ventiquattro ore all’ultimo momento. Può sembrare una follia, ma si temeva che le informazioni sull’operazione sarebbero trapelate e che gli imputati sarebbero scomparsi…». Una paura estesa all’obiettivo numero uno, il boss Luigi Mancuso, arrestato in extremis nella stazione di Lamezia Terme, mentre scendeva da un treno treno da Milano. Secondo gli investigatori, il suo bunker era già pronto… Dopo queste operazioni di commando perfettamente coordinate, una dozzina di imputati mancavano ancora all’appello. Da allora in poi, ogni missione di cattura sul territorio assume un’importanza strategica senza precedenti. «Quando arriva il momento, scegliere se sfondare una porta o no è la decisione più difficile: il minimo errore può rovinare un’indagine a lungo termine», dice il colonnello Capece. 

L’Americano arrestato con l’hamburger pronto in tavola

Un dilemma è sorto il 14 dicembre 2021, quando due degli imputati di “Rinascita Scott” ancora in fuga, Salvatore Morelli, 38 anni (alias “l’americano”), e Domenico Tomaino, 29 anni (alias “il Lupo”), erano stati riconosciuti erano stati avvistati in un complesso residenziale nella frazione di Conidoni, composto da quaranta piccole abitazioni attaccate tra loro. «La linea telefonica non era abbastanza precisa per identificare la casa giusta, ma sapevamo che erano lì», dice il coordinatore dell’operazione. «Incrociando altre informazioni siamo stati in grado di determinare l’indirizzo esatto e lanciare l’assalto. Quando la porta si è aperta i due uomini erano pronti a sedersi per la cena, serviti dalla padrona di casa. Nel menu dell’Americano quella sera c’erano degli hamburger…». 

Falvo: «La ricerca dei latitanti è diventata una scienza»

Camillo Falvo, procuratore di Vibo Valentia, offre il quadro di ciò che accade dopo i blitz, del modo in cui il sistema giudiziario cerca di arrivare alle condanne. «Il processo – dice – è una corsa contro il tempo per raggiungere le sentenze prima della revoca delle misure di detenzione preventiva». Sottolinea che con solo quattro colleghi giovani, i mezzi sono inadeguati per contrastare adeguatamente le organizzazioni criminali della regione. «La ricerca dei latitanti è diventata una scienza, perché abbiamo a che fare con professionisti seri. Fanno pochissimi errori, non si parlano al telefono, usano ancora i pizzini per comunicare. Per ottenere informazioni, dobbiamo nascondere i nostri dispositivi di ascolto negli alberi».
Secondo il procuratore Falvo, questi latitanti sono per lo più protetti dal potere silenzioso del “consenso”. Questo sostegno decisivo si ritrova in una recente conversazione, che lui stesso ricorda: «Una vecchietta che vive in fondo alla strada in cui risiede il boss è stata ascoltata un giorno mentre gli diceva: “Ho visto un’auto nuova che passava, fate attenzione, potrebbe essere la polizia». 

Pasquale Bonavota, l’ultimo latitante di Rinascita Scott

«Per quanto riguarda “Rinascita Scott”, è rimasto solo un latitante, il suo nome è Pasquale Bonavota», insiste il procuratore. Il fratello di questo obiettivo finale, Domenico, responsabile dell'”ala militare” del clan di famiglia, è stato catturato nell’agosto 2020 nella casa in cui si era nascosto dopo la sua condanna all’ergastolo. Secondo gli investigatori, Pasquale, 47 anni, è “l’anima” del clan Bonavota – uno dei più potenti della Calabria. Questo lo rende ancora più pericoloso e sfuggente. Per il momento – racconta Le Monde –, non sono stati trovati indizi sulla fuga di questo boss, capo di un gruppo criminale attivo nel narcotraffico e nel commercio di armi ma anche nell’estorsione e nel riciclaggio di denaro sporco. Potrebbe nascondersi alla fine del mondo o nel cuore della sua roccaforte familiare, a Sant’Onofrio. A soli dieci chilometri da Vibo, dal tribunale e dalla caserma dei “Cacciatori”.

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