COSENZA La disparità di genere diviene elemento ancor più marcato in una terra maledettamente complicata come quella calabrese. Dove la ricerca del lavoro e delle condizioni per scalare i gradini sociali sono i tratti caratteristici del vivere quotidiano in questo lembo di territorio italiano. Ed è così che l’accesso ad una professione, ad un lavoro ben retribuito per una donna si trasforma in una lotta impari. Secondo l’Osservatorio regionale sull’uguaglianza di genere recentemente pubblicato dalla Commissione Ue, la Calabria si trova in fondo alla classifica per la parità di genere nel Vecchio Continente. Ed i dati sull’occupazione ripropongono questa profonda ingiustizia. Per l’Eurostat, il tasso d’impiego delle donne in Calabria è inferiore al 30% della popolazione femminile. Tra le Cenerentole, anche in questo caso, d’Europa. Senza contare il numero di violenze sulle donne che a volte sfociano nel sangue: circa 100 femminicidi negli ultimi 10 anni. E le molestie che quotidianamente subiscono. Le ultime, solo per clamore mediatico, quelle che sarebbero avvenute all’interno del liceo “Valentini – Majorana” di Castrolibero.
Aspetti che abbiamo affrontato con Giovanna Vingelli, docente di sociologia generale al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical che dirige il corso di alta formazione “Politiche di genere e didattica delle differenze” che si svolgerà all’Università della Calabria.
Professoressa la Calabria, secondo una recente ricerca dell’osservatorio della Commissione Ue, è tra le aree europee in cui le donne risultano più svantaggiate sia nella ricerca del lavoro e soprattutto ad ottenere posizioni ambiziose rispetto agli uomini. Da dove nasce il problema?
«Le statistiche europee più recenti ci restituiscono uno scenario allarmante per l’Italia: il gap di genere nel mercato del lavoro è ancora estremamente ampio, e la Calabria è agli ultimi posti a livello comunitario per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile. Le donne italiane, e calabresi in particolare, hanno difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro, ma soprattutto nella permanenza in posizioni lavorative più o meno stabili. Le motivazioni sono certamente di carattere strutturale, riscontrabili in una storica asimmetria di potere che ancora oggi (ri)produce sistemi economici e di welfare che discriminano in particolare le donne. Ma anche stereotipi e pregiudizi di genere duri a morire che si traducono in forme di segregazione formativa e occupazionale, quando non in esplicite forme di discriminazione. Se non si mette in discussione in una prospettiva di genere la stessa struttura sociale ed economica, ogni intervento risulta un palliativo, e non riusciremo a colmare il gap in tempi ragionevolmente brevi».
Inoltre anche sul fronte delle retribuzioni nella regione si registrano grandi differenze con i colleghi di sesso maschile. Perché sussistono queste discrepanze anche su aspetti che viceversa dovrebbero essere oggettivi?
«Il problema dei differenziali salariali è in realtà meno avvertito alle nostre latitudini, ed è invece più evidente dove il gap occupazionale è più ridotto. Quando parliamo di discriminazioni è davvero difficile individuare aspetti “oggettivi”. Un esempio: le donne italiane presentano ormai da anni tassi di istruzione più elevati rispetto a quelli maschili. Le giovani donne, in particolare, si laureano più velocemente e con risultati mediamente migliori. In altre parole, diremmo che sono più competenti e “meritevoli”. Appare chiaro, quindi, che la difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro dipenda da altri fattori, non immediatamente “trasparenti”. In prospettiva, questa situazione dovrebbe contribuire a ridurre il gap, ma recenti statistiche del World Economic Forum ci dicono che – senza interventi strutturali e/o azioni proattive – il gap sarà colmato (a livello mondiale) fra 135 anni. In Italia, questo dato è ancora più accentuato».
E poi c’è da registrare una recrudescenza di fenomeni che se non sfociano in violenza pura, certamente vanno nella direzione di colpire le donne. È un retaggio quello di considerare la donna come oggetto, una proprietà personale?
«Non parliamo purtroppo di recrudescenza: la violenza di genere non è un’emergenza degli ultimi anni, ma una costante della storia dell’umanità. Probabilmente, è la rappresentazione più evidente delle storiche asimmetrie di genere fra uomini e donne. Certo è che, mentre assistiamo a una riduzione progressiva (anche se lenta) del gap di genere in altri ambiti (penso alla politica, almeno a livello nazionale), la violenza contro le donne e il tentativo di controllo del corpo femminile sono ancora fenomeni profondamente e dolorosamente presenti nella nostra società. Abbiamo la percezione di una recrudescenza perché oggi se ne parla certamente di più, abbiamo una normativa più efficace, l’emancipazione femminile e la libertà delle donne sono un patrimonio che non è più possibile mettere in discussione. Non credo che in Calabria ci siano retaggi diversi che altrove. La mia esperienza è di donne – giovani e meno giovani – consapevoli e attente. Una società civile, fatta di movimenti e di un tessuto organizzativo – penso ai centri antiviolenza del territorio – con competenze e una storia di assoluto valore, anche a livello nazionale. Quello che probabilmente manca è un tessuto istituzionale capace di intercettare i bisogni, agevolare le reti, e soprattutto finanziare i centri antiviolenza che – in particolare in Calabria – soffrono di una ormai insopportabile disattenzione. Infine, i percorsi di fuoriuscita dalla violenza sono complessi e si intersecano con altri fattori, uno fra gli altri che in Calabria le criticità per le donne nel mercato del lavoro spesso non consentono a tante di attivare quelle risorse indispensabili per spezzare il circolo della violenza».
Anche nelle scuole questi atteggiamenti si palesano tra giovanissimi. Come Università ne state monitorando l’evoluzione?
«Se è vero che la violenza è un fenomeno trasversale, non possiamo pensare che ci siano luoghi e ambiti non attraversati da forme di sopraffazione. Che si palesano fra giovanissimi spesso socializzati a una cultura di sopraffazione o che considera “normalità” riprodurre ruoli di genere tradizionali. Ma anche fra adulti, e fra adulti e giovani (e in questo caso le asimmetrie di potere sono più evidenti). Come Università dal 2012 stiamo provando a monitorare il fenomeno delle molestie e della violenza di genere nella comunità accademica, nella consapevolezza che non ci sono purtroppo luoghi ‘sicuri’ rispetto a questo fenomeno».
Rimanendo in tema di scuola, la vicenda del liceo di Castrolibero è indicativa di quella forma di sopraffazione. Come la interpreta?
«È ancora presto per interpretare questa vicenda da un punto di vista sociologico. Da un punto di vista personale posso solo esprimere la mia solidarietà e vicinanza alle ragazze che hanno deciso di prendere parola. La manifestazione di ieri (ndr venerdì 18 febbraio) ha mostrato che esistono forme di resistenza importanti, e ci suggerisce come la risposta collettiva sia fondamentale. Se la violenza è un fenomeno strutturale, la risposta non può che essere strutturale; ma riconoscere il ruolo – e essere grate – a chi prende parola è doveroso».
Prendendo sempre ad esempio quanto sarebbe successo in quel liceo. Ritiene che le istituzioni scolastiche siano attrezzate a rispondere al meglio a fenomeni di violenza di genere nelle aule?
«La convenzione di Istanbul ci indica l’approccio e gli strumenti per contrastare il fenomeno della violenza di genere: prevenzione, protezione, punizione, politiche integrate. Le scuole di ogni ordine e grado (quindi anche le Università) sono fra i luoghi che dovrebbero attivarsi per fare prevenzione, attraverso la formazione, la sensibilizzazione, la comunicazione. In Italia siamo ancora indietro su questo piano. Da un lato mancano finanziamenti adeguati, dall’altro emergono resistenze anche ad affrontare alcune tematiche. È tuttavia possibile attrezzarsi e rafforzare il nostro impegno in questi ambiti. A patto che vengano riconsiderati gli interventi spot – che spesso non funzionano – per attivare programmi e progetti strutturati che coinvolgano docenti, personale e studenti. Progetti trasversali di contrasto alle discriminazioni, violenze e molestie, ma che possano anche introdurre i temi delle differenze (di genere ma non solo) nei programmi scolastici. Programmi che devono essere condivisi con soggetti competenti, interni ed esterni all’ambito scolastico».
E voi come mondo universitario quale contributo state offrendo per far crescere la sensibilità verso il riconoscimento della pari opportunità. A partire dalle istituzioni locali?
«Come Università stiamo lavorando da tempo sul tema delle discriminazioni di genere, ad ampio raggio. L’Unical ospita (dal 1997) il secondo Centro di Women’s Studies nato in Italia, che si occupa di ricerca interdisciplinare sui temi di genere. Per arrivare all’oggi, ci stiamo attrezzando anche sul fronte del contrasto alle violenze e molestie: siamo l’unico ente calabrese che ha inteso avvalersi della figura della Consigliera di fiducia, e abbiamo un rinnovato codice antimolestie e un regolamento sulla carriera alias per le persone transgender. Attiveremo nelle prossime settimane lo sportello antiviolenza, in collaborazione con il Centro “Roberta Lanzino” di Cosenza: è questa una richiesta e un bisogno che abbiamo percepito cruciale, soprattutto dopo le importanti segnalazioni che sono giunte lo scorso anno da parte di movimenti femministi del territorio. Cruciale soprattutto perché il contrasto alla violenza di genere da parte delle istituzioni non può che fare i conti con la costruzione di un rapporto di fiducia con la comunità accademica, a tutti i livelli, ma soprattutto con le studentesse e gli studenti. Come anticipato, è essenziale lavorare sul fronte della prevenzione: come Unical aderiamo da 4 anni alla rete Unire – Università in rete contro la violenza di genere, e abbiamo attivato corsi trasversali (per tutti/e gli/le studenti) su Violenza di genere e sessismo. L’ultima iniziativa – che ben si ricollega a quanto detto sulla scuola – è un Corso di Alta formazione (Politiche di genere e didattica delle differenze) che si rivolge, fra gli/le altri/e, al personale scolastico, con l’obiettivo di sviluppare riflessioni critiche e strumenti operativi per un approccio di genere in ambito educativo, ma anche per formare figure esperte e progettisti/e di politiche di genere e di pari opportunità. Le iscrizioni si stanno chiudendo proprio in questi giorni, e speriamo che questa prima edizione possa diventare una buona pratica sul territorio e anche un momento di condivisione di queste tematiche così attuali e urgenti». (r.desanto@corrierecal.it)
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