ROMA È il 19 giugno 2019. Un ristoratore di Anzio che ha appena subìto una richiesta di estorsione si rivolge all’uomo che ritiene il più adatto a proteggerlo. Non è un rappresentante delle forze dell’ordine; si tratta di Bruno Gallace, che i magistrati della Dda di Roma ritengono uno dei capi del “locale” che governa sul litorale capitolino. Assieme al titolare del locale c’è il suo socio occulto, Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, condannato per traffico di stupefacenti e assassinato a Roma il 7 agosto 2019 in un agguato dietro al quale si intrecciano gli interessi delle “mafie capitali” attorno al narcotraffico. È un’altra storia: quella che si lega al tentativo di estorsione è confluita nell’inchiesta che ha portato, giorni fa, all’emissione di 65 misure cautelari e alla conferma dell’estensione di potere e logiche ‘ndranghetistiche a pochi chilometri da Roma. Il ristoratore in difficoltà cerca protezione «non solo in Bruno Gallace ma anche in Gregorio Spanò». Questa circostanza è ritenuta «di estremo valore non solo perché offre un inequivoco elemento per cogliere l’autorità criminale riconosciuta ai due soggetti ma anche per delineare l’unicità del locale di ‘ndrangheta». Gallace e Spanò farebbero riferimento alle ‘ndrine di due territori distinti, Guardavalle e Santa Caterina d’Aspromonte: l’ipotesi investigativa è, invece, che i due clan si siano fusi, diventando una sola cosa, per gestire i loro affari tra Nettuno e Anzio. Che Gallace fosse riconosciuto come uno dei capi, sarebbe provato anche dalla festa “offerta” («omaggio nostro») dal ristoratore per il compleanno della figlia del calabrese nel suo locale. «Segno di riverenza», per i magistrati. Il titolare del locale, però, non ha ascoltato il consiglio del presunto boss: ha scelto di coinvolgere nella propria attività «altre situazioni». Gallace se ne lamenta al telefono: per gli inquirenti «si sta riferendo a Fabrizio Piscitelli». È grazie a un’altra intercettazione che il riferimento diventa esplicito. Uno stretto collaboratore di Gallace spiega che «questi qua so’ andati a fa’ l’estorsione, non so se è andato un altro gruppo che gliel’hanno fatto più apposta a Diabolik, capito? Non lo so il perché e Diabolik ha preso ed è andato insomma lui è venuto de qua e gliel’ha chiesto a un paesano». Vincenzo Italiano, questo il nome del collaboratore del boss, si stupisce che qualcuno abbia tentato di disturbare un’attività con un socio occulto così ingombrante: «Mo’ non lo so se poi Diabolik gli stava a fa’ la cresta sopra», ipotizza. La storia, per i magistrati antimafia, fa risaltare «l’autorità criminale del locale di ‘ndrangheta sul territorio».
Di questa «autorità criminale» si trovano tracce nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip distrettuale di Roma. Giacomo Madaffari, che rappresenta il vertice dell’altra metà della ‘ndrina “romana”, interviene per ricomporre contrasti ed evitare che l’attenzione delle forze dell’ordine aumenti. Accade dopo una serie di episodi violenti: il primo a opera di un tizio, detto “il Turco”, che ha la malaugurata idea di aggredire il genero di una donna legata a Gallace. La rappresaglia sarà un violento pestaggio con tanto di sottrazione di un borsello contenente 7.500 euro. In questo caso la mediazione non riesce, ma dai commenti delle persone coinvolte emerge la figura di «Giacomo», un uomo che «cerca di trovare una soluzione senza fare male a nessuna delle due parti». In un’altra vicenda, l’intervento di Madaffari è fondamentale. Due suoi sodali, infatti, decidono di farsi giustizia da sé dopo l’omicidio di Luca Palli, avvenuto ad Aprilia il 31 ottobre 2017. Il “capo” interviene e li ferma: «Il maresciallo, qua di Aprilia – dice – mi ha chiamato: digli a Patrizio di fermarsi immediatamente perché sanno tutto (…) stai lontano perché se lo andate a toccare vi arrestano a tutti, hanno tutto in mano loro».
A Modaffari si sarebbe rivolto anche un uomo di origine siciliana. Gli avrebbe chiesto aiuto in seguito a un’aggressione («gli ha dato due coltellate davanti alla madre, lo hanno picchiato, cioè che devono fare di più?»). Il capo del “locale” non nega il proprio aiuto ma non vuole esporsi in prima persona. Ciò che salta agli occhi è, però, il precedente della persona che lo contatta: si tratta di un 58enne arrestato nel 1994 per favoreggiamento e in rapporti con due latitanti di Cosa Nostra. Nomi che fanno impressione: Giuseppe e Filippo Graviano, i boss delle stragi che insanguinarono il Paese agli inizi degli anni Novanta. «È evidente – appunta il gip – che la vicinanza» dell’uomo «ad ambienti di criminalità organizzata sì eclatanti – qual è la caratura criminale dei fratelli Graviano – risalta in modo emblematico, come sottolineato dal pm, la riconosciuta autorità criminale di Giacomo Madaffari sul territorio».
Nell’ottobre 2019, il carisma criminale di Madaffari affronta una prova importante. Accade dopo una rapina a mano armata messa a segno da Mario Tedesco, 31 anni, di Soverato. Tedesco, che per gli inquirenti è un membro del clan colpito dall’operazione della Dda di Roma, rischia di scatenare una guerra: vittima del “colpo” è infatti «un appartenente al clan Di Silvio-Spada», attivo nell’area del quartiere Europa di Anzio. La storia inizia il 24 settembre 2019: le cimici dei carabinieri intercettano una conversazione nella quale viene anticipata «l’intenzione di recarsi nell’abitazione di uno “zingaro” per recuperare» un debito. I calabresi non credono all’appartenenza del debitore alla criminalità rom «e, pertanto, dopo avere telefonato direttamente ai Di Silvio di Latina», si organizzano per un’azione ritorsiva. «Le prime cinque martellate in testa le dò io», dice uno degli interlocutori. Dopo circa una settimana, Vincenzo Italiano viene «contattato telefonicamente da Monique la zingara». La donna, dirà Italiano a Gallace, «è una Spada, però è cugina carnale» dell’uomo aggredito da Tedesco.
La storia della rapina viene riassunta in poche efficaci battute all’interno della pizzeria di Bruno Gallace. «È annato là e gli ha messo il ferro in faccia e ha scippato 20-30 grammi e gli ha fatto anche il telefono». Per sistemare la cosa viene chiesto l’intervento di Madaffari: sono gli esponenti del clan Spada-Di Silvio a chiedergli di intervenire («quelli hanno mandato l’imbasciata che vogliono una garanzia da me»). La circostanza preoccupa il “capo”, che «manifesta la sua preoccupazione per la caratura criminale dei soggetti coinvolti perché “dietro di loro non sono ragazzini, dietro di loro ci sono altre persone“». È per placare la tensione che, ricostruisce il gip, «Giacomo Madaffari e Bruno Gallace sono intervenuti in forza della loro autorità criminale». (p.petrasso@corrierecal.it)
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