REGGIO CALABRIA Prima dell’Inferno della prostituzione, il viaggio dalla Nigeria e la promessa di un’occupazione lecita in Italia. Un viaggio «estenuante», pieno di «traversie e violenze» durato dal maggio all’agosto del 2014. Dapprima la partenza in pullman per attraversare l’intero deserto del Niger, poi l’arrivo in Libia, la partenza a bordo di un barcone e l’approdo al porto di Reggio Calabria. Questa la storia di una giovane nigeriana, una delle tante indotte con l’inganno a raggiungere l’utopia della “terra promessa”, che riempie le pagine dell’ordinanza firmata dal gip Vincenza Bellini su richiesta della della procura guidata da Giovanni Bombardieri all’esito delle indagini condotte dal sostituto procuratore Sara Amerio. Il provvedimento è stato eseguito dalla squadra mobile della città dello Stretto, che ha applicato la misura della custodia cautelare in carcere a Favour Obazelu, detto “Fred” o “Friday”, 43enne nigeriano già accusato di associazione a delinquere e detenuto dal 2019 – in seguito all’inchiesta “Drill” della Dda di Bari – nel carcere di Agrigento. Le accuse sono riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale. Indagato insieme a lui il fratello, Eghosa Osasumwen detto “Osasu” di 32 anni e altre tre persone.
I problemi economici in Africa avevano spinto la giovane vittima ad accettare la proposta di trasferirsi in Italia. La promessa era di lavorare in un bar, ma i dubbi cominciano a sorgere ben prima della partenza, quando “Osasu”, fratello di “Friday” la porta, insieme ad altre ragazze, in una città vicino a Benin City per sottoporla ad un rito voodoo. Alle giovani viene imposto di indossare delle vesti bianche. «Io – racconta agli agenti – non ho potuto indossarla perché avevo il ciclo e così mio zio ha dovuto sottoporsi al rito al posto mio cingendosi i fianchi con la veste a mo’ di fascia. Ci hanno fatto dei piccoli tagli sulla fronte per prendere del sangue e ci hanno preso anche dei pezzetti di unghie dalle mani». Alle giovani viene quindi data una bevanda alcolica costringendole a berla «insieme a una sostanza di nome cola». Poi «le altre ragazze hanno mangiato il pezzo di cuore di una gallina appena uccisa».
Il racconto della giovane agli agenti della Mobile di Palermo risale a settembre 2017. Nella città dello Stretto era arrivata insieme ad altre due ragazze «scortate» da “Osasu” su indicazione di Obazelu. Dopo la fuga dal centro di accoglienza, in stazione, racconta ancora, «ci hanno consegnato dei soldi per raggiungere Bari» dove le tre «erano tenute segregate in un appartamento e costrette a prostituirsi per strada». I guadagni dovevano essere consegnati a “Friday” «che aveva chiesto loro 25mila euro per venire in Italia» e tratteneva le somme «per saldare il debito». Il voodoo – com’era stato fatto promettere alle giovani dal “native doctor” – serviva a esercitare la coercizione mentale necessaria a fungere da “garanzia” della restituzione del denaro. «Durante i primi tre giorni di permanenza ci hanno vestito, pettinato e rese più presentabili» prima di essere portate, nei giorni successivi, «vicino all’ospedale» dove si trovavano già altre ragazze. «Qui ci hanno detto che non esisteva nessun ristorante e che l’unico modo che avevamo per ripagare il debito era quello di prostituirci». La donna che le aveva accompagnate aveva loro consegnato i preservativi e detto cosa fare. «Ci ha detto che avremmo dovuto pagare 150 euro al mese per l’affitto, 50-60 euro al mese per il vitto e 200 euro al mese di joint (l’occupazione della postazione)». In quel periodo sostiene di aver «guadagnato 14mila euro» interamente consegnati all’uomo.
La giovane racconta di essere stata più volte violentata dallo stesso Obazelu e di essere rimasta incinta due mesi dopo l’arrivo nel capoluogo pugliese. «Quando ho detto a “Friday” e “Jessica” (la moglie, ndr) che ero incinta – prosegue il racconto – hanno cercato di farmi abortire facendomi prendere 40 pillole di non so cosa nell’arco di due giorni». Ma la gravidanza arriva comunque al termine con un parto cesareo. Racconta di essere stata costretta a prostituirsi anche durante quel periodo «e di aver ripreso dopo una sola settimana dal parto». Dopo l’arrivo del figlio aveva provato a tirarsi fuori da quel giro senza riuscirci. La reazione dell’uomo era sfociata in percosse, schiaffi e colpi di cintura. Era stata relegata in una stanza di cui solo lui possedeva le chiavi privandola del cellulare onde evitare che comunicasse con l’esterno.
Dopo qualche tempo “Jessica” muore e “Glory”, una delle due ragazze arrivate con lei da Reggio a Bari, prende il suo posto al fianco di Obazelu. «Visti i miei orari che non mi permettevano di accudire mio figlio, erano “Friday” e “Glory” che si prendevano cura di lui».
Nella “connection house”, inoltre, si tenevano le riunioni del cults: «“Friday” è un capo di un culto chiamato indifferentemente “Arubaga” o “Vikings”. Durante la mia permanenza a Bari ho visto che ogni domenica riceveva un gran numero di uomini con i quali si riuniva. Bevevano alcol, cantavano ed a volte celebravano un rito d’ingresso per nuovi adepti. Durante il rito, l’aspirante adepto veniva picchiato ed attraverso un piccolo taglio a un dito ne prelevavano un po’ di sangue che veniva diluito nelle bevande e bevuto dai presenti. Non so quale sia lo scopo di questo gruppo, ma so che se violano il vincolo del segreto verranno uccisi». Dopo una di queste cene finita male, Obazelu decide di sbatterla fuori di casa impedendole di tornare per rivedere il piccolo. «Ho dovuto andarmene lasciando mio figlio», che oggi ha circa sei anni. Nei giorni successivi, la donna rimane a dormire nella stazione di Bari dove incontra una connazionale insieme alla quale si sposta a Torino. L’altra donna parte per la Francia, per raggiungere il marito e le consiglia di contattare un uomo a Palermo. Una volta giunta nell’abitazione di Ballarò, scopre di trovarsi in un’altra “connection house” dove vivevano già altre ragazze a loro volta costrette alla prostituzione per un compenso di 15-20 euro a prestazione. «Ricordo che [una sera], probabilmente ubriaco o sotto l’effetto di qualche sostanza (l’uomo che gestiva la casa, ndr), ha preteso da me un rapporto sessuale gratis e che al mio rifiuto mi ha cacciato di casa». Da qui una nuova fuga, l’arrivo alla Caritas e la denuncia. La giovane viene così mandata nel 2019 in una struttura di Udine che tutela le “vittime di tratta” dove ancora una volta racconterà l’orrore subito.
Obazelu “Friday” risulta arrestato nell’ambito di un’operazione condotta dalla Dda di Bari nei confronti di 32 persone di nazionalità nigeriana accusate di far parte di un’associazione «finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, alla tratta di esseri umani» e una serie di altri reati. Al centro dell’inchiesta «due distinte associazioni a delinquere di stampo mafioso, di natura cultista, operanti nella provincia di Bari quali cellule autonome delle fratellanze internazionali denominate “Supreme Vikings Confraternity-Arobaga” e “Supreme Eye Confraternity”, che hanno agito allo scopo di ottenere il predominio del territorio barese e di gestire i propri affari illeciti».
Obazelu, nella specie, sarebbe «capo» della “Supreme Vikings Confraternity” di Bari, detta “i rossi”. Un cult nigeriano che costituisce «una compagine criminosa organizzata secondo i canoni» di omologhe confraternite nigeriane delle quali sfrutta anche la «forza di intimidazione» e «l’omertà che ne deriva». Come evidenziato anche dalla pm Amerio «è il promotore di un’organizzazione criminale transnazionale che ha reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia». Tante storie ancora da raccontare e ascoltare. (redazione@corrierecal.it)
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