È inutile girarci attorno: in Calabria c’è una strana idea della stampa libera. Viene applaudita quando tocca “nemici”, secondo una classificazione tanto personale quanto sfuggente. Quando, invece, racconta interessi personali o di cordata diventa un nemico da combattere o, meglio ancora, da abbattere. Gli strumenti a disposizione non mancano: diffide, che preludono ad atti di mediazione, che aprono le porte a richieste di risarcimento che sfociano in querele, spesso temerarie. Gli esempi sono decine: agli imprenditori che, ritenendosi diffamati da un articolo di cronaca, arrivano a chiedere cifre a sei zeri si aggiungono quelli per i quali la richiesta di risarcimento diventa imponderabile. Politici feriti nell’orgoglio da una frase chiedono la cancellazione di un pezzo il giorno dopo la sua pubblicazione, pena una causa (milionaria anche quella?) che costringerà giornalista, direttore ed editore a girovagare per le aule dei tribunali, forse per anni. L’elenco sarebbe lunghissimo.
Chiariamo: non si mette in dubbio il diritto di rivolgersi a un giudice qualora ci si ritenga diffamati. Il punto è che il campionario che ogni redazione può esibire mostra richieste tanto bizzarre da far sorgere il dubbio che la vera questione sia un’altra, e cioè cercare di mettere il bavaglio alla stampa.
Ci si muove nel terreno che segna la distanza tra la lesione della propria onorabilità e il tentativo di intimidire cronisti, editorialisti, testate. La sensazione è che spesso si tenda a raggiungere il secondo obiettivo. Non ci stracceremo le vesti per questo, continueremo tutti a fare il nostro lavoro. A raccontare fatti, riportare opinioni, evidenziare le incongruenze di una regione in cui il grigio si allarga sempre più. E ci difenderemo dalle richieste di risarcimento e dalle querele temerarie. Ciò che non possiamo più fare è restare in silenzio davanti a metodi e numeri che fanno pensare a un attacco vero e proprio alle prerogative della libera stampa. È tempo di rispondere a questa aggressione. Come? Per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «dobbiamo garantire i giornalisti dalle azioni temerarie. I giornalisti sono chiamati in tante cause civili con risarcimenti dei danni stratosferici. E il giornalista così non può svolgere serenamente il proprio lavoro». Il magistrato, già a capo della Dda di Reggio, conosce bene la realtà calabrese. Nel suo intervento alla tavola rotonda internazionale organizzata a Siracusa dall’associazione “Ossigeno per l’informazione” ha proposto una soluzione: «Quali possono essere i modelli di garanzia? Quando viene chiesto il risarcimento se la querela è temeraria, il soggetto che ha citato in giudizio il giornalista se ha torto dovrebbe essere condannato al doppio del risarcimento del danno richiesto». Perché «l’informazione oggi è il cardine della democrazia». E non un accessorio da esibire a seconda della (propria) convenienza.
Giuseppe Soluri, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria
Andrea Musmeci, segretario del sindacato Giornalisti della Calabria
Michele Albanese, presidente dell’Unci Calabria
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Arcangelo Badolati, giornalista e scrittore
Maria Scaramuzzino, giornalista
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