REGGIO CALABRIA «È in gioco la libertà di tutti. La stampa libera nella lotta contro i clan ha un ruolo strategico di narrazione e di denuncia che non può essere condizionato». Michele Albanese, giornalista e presidente dell’Unione nazionale cronisti italiani Calabria, va dritto al cuore del problema. In tema di denunce temerarie – l’iniziativa avviata dal Corriere della Calabria assieme ad altre testate, all’ordine e al sindacato dei giornalisti – segnala come nella regione assediata dai clan la questione assuma tutt’altro tenore. Un’emergenza nell’emergenza. Per questo Michele che da anni vive sotto scorta per le sue inchieste contro le cosche di ‘ndrangheta rilancia un appello a tutti: «occorre puntare a sviluppare “difese comuni”» contro «i nemici dell’editoria libera ed onesta». Diversamente dice, «si rischia di indebolire la democrazia e le nostre libertà individuali e collettive».
Cosa significa per un giornalista come te che vive da anni sotto scorta, ricevere una querela, magari da qualcuno in odore di mafia?
«Potrei dirti che rientra nella norma, perché chiunque ritiene di essere stato diffamato ha il diritto di rivolgersi alla magistratura. È il gioco delle parti e del diritto. Ma ci sono momenti nei quali prevale la stanchezza di doverti difendere, che non è una banalità, perché significa raccogliere carte, presentarti alle forze dell’ordine per le notifiche o in tribunale per le udienze e seguire il dibattimento. Questo è anche parte del nostro mestiere. L’importante però è farlo bene senza essere al servizio di nessuno e facendo prevalere la verità. Nella mia lunga carriera professionale sono stato costretto a difendermi, pur in presenza di inequivocabili atti giudiziari su fatti che ho raccontato, innumerevoli volte. Spesso accade che dietro le querele ci siano legali che, su mandato preciso di altri soggetti, tentano con ogni mezzo di condizionarti e renderti il mestiere difficile. Io sono stato querelato ben 57 volte e non sono mai stato condannato».
E poi con che spirito un giornalista può portare avanti un’inchiesta, se già ha ricevuto una richiesta di risarcimento pesante?
«Non certo con lo spirito tranquillo, perché ti pesa quella richiesta, soprattutto se è a cinque zeri, per centinaia di migliaia di euro. E la cosa più drammatica è quando queste richieste arrivano a giovani corrispondenti pagati a pezzo che ovviamente scelgono di tirarsi indietro ed intraprendono altre strade. I più esperti sanno invece, che moltissime volte, la richiesta di risarcimento anche milionario altro non è che un tentativo di condizionamento con il chiaro obiettivo di costringerti a non interessarti più di quella vicenda o di quei fatti. In Italia il 97% delle querele cosiddette “temerarie” finiscono con un nulla di fatto e la parte soccombente non paga nulla, dopo aver fatto tribolare un giornalista o un giornale per mesi. Una cosa inaccettabile!».
Ma spesso l’attacco ai giornalisti proviene dall’alto. Da chi dovrebbe rappresentare le istituzioni, ma in realtà punta a difendere solo le sue posizioni di privilegio. Forse è la più odiosa delle “minacce” alla libertà dell’informazione?
«Arrivano anche da chi invece dovrebbe tutelare e difendere la libertà di stampa come risorsa per la difesa delle libertà e della democrazia. Ma non mi meraviglio di questo. Non c’è giorno che nel nostro paese o nella nostra regione “un potente” rinnega l’articolo 21 della nostra Costituzione e cerca di limitare la libertà di stampa, che è racconto fedele della verità e non libertà di diffamare a piacimento. Il Giornalista conosce perfettamente i confini ed i limiti che delimitano queste due dimensioni».
La questione delle querele temerarie diviene ancora più stingente in una terra come quella calabrese che è assediata dai clan. Sotto questo profilo è un’emergenza nell’emergenza?
«Una volta, anni fa, ricevetti dal legale di una nota famiglia di ‘ndrangheta, non solo la querela per aver citato il nomignolo di uno ‘ndranghetista, tra l’altro usato nelle carte processuali dai magistrati per differenziarlo da un suo parente omonimo, ma anche la richiesta formale, con tanto di lettera formale con la quale mi si intimava di chiedere ufficialmente scusa a quella famiglia di vertice della ‘ndrangheta calabrese. Ovviamente ebbi ragione io e quelle scuse non arrivarono mai. Si arriva anche a questi paradossi in Calabria, regione nella quale si sta combattendo uno scontro epico contro una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo. Tema, tra l’altro scomparso nell’agenda politica ed istituzionale. E la stampa libera in questo scontro epocale ha un ruolo strategico di narrazione e di denuncia che non può essere condizionato. Spesso, alcuni contesti intrisi di mafia, massoneria deviata, politica ed affari hanno più timore della stampa “libera” che della stessa magistratura o delle forze dell’ordine. Io penso che noi, ad ogni livello, dobbiamo conservare e difendere questo grande valore e questa grandissima responsabilità e dobbiamo farlo con tutta la forza che abbiamo in corpo».
Colpisce ancora di più in una regione dove la gran parte dell’informazione è rappresentata da piccole testate che non hanno la capacità economica di affrontare processi con risarcimenti di decine o addirittura di centinaia di migliaia di euro?
«Più la Calabria resta periferica più corre il rischio dell’oscurantismo e di essere vittima dei coni d’ombra della grande informazione nazionale. Una volta un noto direttore di una testata tv nazionale convocò i suoi giornalisti e services e gli disse che a lui interessavano solo notizie da Napoli in su, perché solo in quelle aree si poteva ottenere una notevole ricaduta pubblicitaria. Questo da l’idea di come viene considerata la nostra regione in alcuni ambiti, nonostante qui vi sia il più grande campo di battaglia contro le mafie da lustri. Notizie che però non valicano il Pollino tranne rarissimi casi. Una guerra vera e propria della quale si sa poco o nulla anche perché, diciamoci la verità, ai grandi editori del nord, della Calabria non gliene frega nulla. Avete visto mai una redazione di un grande giornale italiano in Calabria? Noi invece dobbiamo lottare con le armi che abbiamo, anche a costo di fare sinergia in un momento drammatico per l’editoria in generale. Come? Puntando a sviluppare “difese comuni” anche sulle querele temerarie così come si sta cercando di fare. I nemici dell’editoria libera ed onesta sono innumerevoli anche in Calabria, dove il lobbysmo mafioso sta prendendo piede e rischia di avvolgere anche pezzi di editoria colpendo chi non si piega alle loro logiche».
Secondo te perché la battaglia contro le querele temerarie non deve essere considerata una questione solo di difesa di corporazione?
«Da tempo gli organismi di categoria – l’ordine dei giornalisti ed il sindacato dei giornalisti – pone questo tema delicatissimo. Vi è una legge contro le querele temerarie ferma da anni al Senato che giace in un cassetto perché nessuno intende trattarla. Questo accade perché non abbiamo la forza di porlo all’attenzione pubblica e quindi alla politica? Forse. Ma accade anche perché l’attuale norma fa gioco a molti, anche ai politici. Quel che non si riesce a far capire è che l’informazione e la libera stampa se fatta come si deve è il vero cane da guardia della democrazia e che limitando la stampa in qualche modo si affievolisce anche la libertà dei cittadini che devono essere informati correttamente».
Se non si pone un freno al dilagare di questo fenomeno, cosa rischia una regione già così fragile come quella calabrese?
«Si rischia di indebolire il diritto dei cittadini ad essere informati. Si rischia di indebolire la democrazia e le nostre libertà individuali e collettive. Su questo fronte occorre coinvolgere tutte le testate calabresi che credono in questa battaglia di civiltà».
Cosa è possibile fare per ridurre il fenomeno?
«Ricercando l’unità di intenti su questo tema spinoso, coinvolgendo la politica onesta, la società civile, cercando di costruire momenti di approfondimento insieme agli organismi di categoria nazionali e regionali e a quelle realtà che su questi temi si stanno già spendendo. Per esempio, anche l’Unesco che ha organizzato ad ottobre scorso insieme ad “Ossigeno per l’Informazione” una giornata di denuncia. Proprio quel giorno il procuratore nazionale Antimafia Cafiero De Raho pronunciò le parole che sono state riportate nell’appello sottoscritto da tante testate calabresi e che ha già trovato grandissimo interesse di “Ossigeno per l’Informazione”». (r.desanto@corrierecal.it)
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