CROTONE «Sono i politici, gli uomini delle istituzioni e i rappresentanti di enti pubblici quelli che maggiormente minacciano con querele temerarie la stampa libera in Calabria». Giuseppe Pipita, direttore de “Il Crotonese” denuncia contro quello che definisce un vero e proprio «paradosso».
Secondo Pipita, il tema delle querele temerarie dovrebbe diventare centrale in Calabria, perché rappresenta «una seria minaccia alla libertà di espressione». E sul coro di reazioni all’iniziativa avviata dal Corriere della Calabria assieme ad altre testate, all’ordine e al sindacato dei giornalisti, il direttore de “Il Crotonese” si augura che, quello che sta avvenendo, non sia solo una «passerella mediatica».
Qual è l’aspetto più doloroso per un giornalista che riceve una querela. Soprattutto se ha fatto bene il suo lavoro?
«Proprio quello di sentirsi “punito” per aver fatto bene il proprio lavoro. Perché noi che lavoriamo nei giornali locali, soprattutto in Calabria, sappiamo bene che quando si scrive qualcosa di delicato bisogna essere documentati ed avere certezze. Le querele temerarie sono una vera minaccia».
Raccontaci l’episodio più brutto che hai subito come attacco alla tua libertà nel descrivere una vicenda?
«Paradossalmente le vicende che hanno portato a querele contro il giornale sono legate più ad aspetti della vita politica e amministrativa del territorio che a quelle criminali. Sono i politici, i consiglieri comunali ed a volte anche i rappresentanti di enti o istituzioni pubbliche a presentare querele. È capitato di ricordare su un articolo che un consigliere comunale, durante il suo intervento, diceva esattamente il contrario di quello che aveva affermato sulla stessa vicenda, durante un’altra consiliatura…. e ci ha denunciati perché ha ritenuto che gli avessimo dato del bugiardo. Insomma è stato come se questo signore ci avesse avvertito: non dovevamo infastidirlo».
Nel concreto quali effetti derivano alla testata, da un’azione civile anche se palesemente priva di fondamento?
«Innanzitutto si è costretti a dover pagare un avvocato, affrontare un processo e la pressione psicologica che ne deriva attingendo dalle esigue risorse del proprio giornale. Nonostante tutto abbiamo sempre continuato a fare il nostro lavoro. Anche quando più che con le querele, ci hanno colpito direttamente con un attentato. Alcuni anni fa per una serie di articoli sulla vicenda “Europaradiso” hanno fatto fuoco a colpi di pistola contro la nostra tipografia».
Quanto è difficile fare cronaca, se si è minacciati anche da questo genere di azioni, in un territorio così difficile come quello crotonese?
«È difficile non solo per le querele temerarie che, ribadisco, sono fatte allo scopo di minacciare, ma anche per una cultura di “un’informazione fast” che porta spesso a leggere solo i titoli ed a valutare solo quelli, magari scatenando una serie di commenti ed insulti soprattutto sui social. Su questo manca una normativa chiara che dovrebbe punire chi insulta o ti chiama “scribacchino” pubblicamente. Mentre noi giornalisti questo non possiamo farlo, il popolo dei social, invece, sembra libero di scrivere di tutto. Poi c’è sempre il timore che scrivere qualche cosa di delicato possa portare ai giornali conseguenze di carattere economico – dirette e indirette – che aggravano un quadro finanziario già difficile da tenere in equilibrio».
Perché l’iniziativa che si è avviata contro le denunce temerarie dovrebbe coinvolgere tutti, soprattutto in una regione come la nostra?
«Perché tutti quelli che fanno informazione devono poterlo fare liberamente. Senza sentire addosso la “spada di Damocle” di eventuali querele e richieste di risarcimento».
Stanno arrivando tanti attestati di adesione all’iniziativa avviata. Lo reputi un buon segnale per la Calabria?
«Spero che non sia solo un modo per sfruttare la passerella mediatica che abbiamo offerto parlando di un problema serio. Ho visto troppi politici, anche alcuni che vorrebbero togliere i contributi dello Stato alla piccola editoria, esprimere solidarietà. Spero che, invece, proprio leggendo cosa dobbiamo affrontare ogni volta che pubblichiamo un articolo, questi signori capiscano che fare giornalismo non è mettere un post o una foto sui social. E soprattutto capiscano che l’informazione non può essere gratuita come tanti, troppi, pensano». (r.desanto@corrierecal.it)
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