CATANZARO «Il rischio di autocensura esiste maggiormente in territori in cui le realtà editoriali non hanno grandi mezzi economici. Il timore di incorrere in procedimenti giudiziari lunghi ed esosi è determinante». Alessandro De Virgilio, responsabile della redazione calabrese dell’Agi spiega così le motivazioni per le quali le querele temerarie possono divenire una “questione di sopravvivenza” e dunque un meccanismo che frena la libertà di stampa in una regione povera come è quella calabrese.
Da qui, secondo De Virgilio, l’importanza della battaglia promossa dal Corriere della Calabria assieme ad altre testate, all’ordine e al sindacato dei giornalisti. Anche se sottolinea il responsabile della sede calabrese dell’Agi: «l’informazione libera dà fastidio a ogni latitudine».
Accanto a questa lotta per sostenere una corretta informazione De Virgilio, ne segnala un’altra: la scelta di molti inquirenti di non fornire più il nome degli arrestati nelle operazioni di polizia. Ed a questo proposito, De Virgilio, ricorda: «Nei regimi autoritari si finisce in carcere e nessuno viene a saperlo, neanche i parenti stretti».
Quanto influiscono, sul lavoro giornalistico che si svolge in una regione difficile come quella calabrese, le minacce di querele e di richieste di risarcimento danni?
«Ritengo che il problema sia particolarmente rilevante in una realtà nella quale l’informazione è garantita da piccoli editori privi di grandi mezzi economici e che il rischio di autocensura sia conseguenziale. Questo per non incorrere in procedimenti giudiziari che, pur concludendosi con sentenze favorevoli al giornalista, dati i tempi della giustizia italiana, si trascinano per anni, causando disagio e dispendio di risorse. È doveroso, per ogni giornalista, il massimo scrupolo nel trattare la notizia ed altrettanto doveroso è farlo nel pieno rispetto delle persone. Anche e soprattutto quando si raccontano vicende di cronaca nera che possono esporre l’interessato al pubblico ludibrio, nonostante la presunzione d’innocenza da tutti decantata e proclamata. Cionondimeno, il dovere di raccontare i fatti può scontrarsi con la reazione delle parti che, anche in buona fede, si ritengono lese. Questo, comunque, non può condizionare un organo d’informazione serio che si lasci guidare dal dovere, dalla deontologia e, soprattutto, dai fatti».
Qual è la categoria che fa maggiori pressioni, anche velatamente, sull’attività che la tua redazione porta avanti?
«Devo dire che in 30 anni di attività professionale ed in 25 di lavoro nella redazione regionale dell’Agi non ho mai subito pressioni di nessun genere. Mi piace attribuirlo alla serietà con cui mi sforzo di svolgere il mio lavoro. Al di là di qualche telefonata risentita, non ricordo di aver mai dovuto sopportare pressioni o minacce».
Mentre nella tua storia giornalistica qual è stata la vicenda più odiosa che hai dovuto sopportare sotto il profilo di richieste palesemente ingiustificate?
«Come dicevo, non sono stato al centro di vicende particolari. Posso dire che agli inizi della mia carriera, come redattore del quotidiano economico “Ore 12-Il Globo” distaccato in Calabria, mi occupai delle irregolarità denunciate da un imprenditore locale nei confronti di un grosso istituto bancario. Fui sentito dai carabinieri che mi misero al corrente dell’avvio di una non meglio precisata azione giudiziaria da parte dell’istituto di credito. A una specifica domanda dell’organo di polizia giudiziaria sulle mie fonti, risposi di essere in possesso di un’ampia documentazione a riscontro delle dichiarazioni dell’imprenditore interessato che avrei messo a disposizione della magistratura qualora mi fosse stato richiesto. Da allora non ebbi mai più notizia di quella vicenda. Presumo che la presunta parte lesa non fosse del tutto convinta di aver agito nelle regole e che pertanto abbia pensato bene di lasciar perdere per non correre rischi».
Dalla tua esperienza come ci si difende da questo genere di attacchi?
«Principalmente con un giornalismo scrupoloso e il più possibile aderente alla realtà dei fatti, poi con la consapevolezza che certe situazioni possono far parte del mestiere».
Ritieni che ci sia una specificità tutta calabrese nel sistema di procedere per vie giudiziarie per fermare chi fa informazione?
«Laddove mancano editori forti, il rischio è maggiore, ma non riscontro una specificità calabrese. L’informazione libera dà fastidio a ogni latitudine».
Come portare avanti la battaglia avviata contro le querele temerarie e le richieste esose di indennizzi a giornalisti e testate?
«Ci sono proposte di legge che mirano a introdurre sanzioni pecuniarie pesanti per le azioni temerarie, in sede civile e penale, qualora la querela risulti infondata. Credo che la strada da seguire sia quella. Al momento il sistema non prevede nessuna forma di sanzione».
E come coinvolgere il grande pubblico, i lettori calabresi in questa lotta?
«Bisogna far capire ai lettori che il mestiere del giornalista non è semplice e questo per tanti motivi, non ultimo in una realtà come quella calabrese, la precarietà del lavoro e di chi non ha la fortuna di lavorare in una testata economicamente solida. A ciò si aggiunga che chi opera in Calabria si occupa spesso della mafia più potente del mondo: penso a colleghi che vivono sotto scorta per aver fatto il loro dovere. Apro un altro capitolo su cui credo che i nostri organismi di rappresentanza e le istituzioni debbano riflettere: le forze di polizia non forniscono più i nomi delle persone arrestate. Dico arrestate, non semplicemente indagate, in seguito a recenti direttive del ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Mi permetto di far rilevare che la pubblicazione del nome di un arrestato è anche una garanzia per l’indagato stesso. Nei regimi autoritari si finisce in carcere e nessuno viene a saperlo, neanche i parenti stretti. In una democrazia non è tacendo i nomi degli indagati che si fa rispettare la presunzione d’innocenza. Il problema non è se i giornali pubblicano un nome, ma se l’arresto è necessario. In un sistema garantista, fatti salvi i rischi di reiterazione di reato, di fuga o di inquinamento delle prove, l’indagato dovrebbe arrivare al processo da uomo libero. Il paradosso italiano è che si finisce in carcere prima del processo, ma spesso, poi, non si sconta la pena. Ho portato questo esempio per dire che oggi, se un giornalista pubblica il nome di un arrestato, lo fa a proprio rischio e pericolo, nel senso che si espone a ritorsioni giudiziarie. Non è il giornalista, o solo il giornalista, a spettacolarizzare la giustizia, perché spesso è il sistema giudiziario a farlo. Ho fatto questa digressione per far capire che essere giornalisti non significa solo scrivere, a monte c’è la ricerca della notizia e delle fonti. Un gruppo di testate locali, fra cui la vostra, sta facendo un’opera di sensibilizzazione più che meritoria sul problema delle querele e delle richieste di risarcimento facili. E questo è importante».
I parlamentari calabresi potrebbero dare una mano per promuovere iniziative per limitare i danni alla libertà di stampa in una regione già affamata di verità?
«Il disegno di legge del quale parlavamo è un buon punto di partenza. Occorre portarlo a compimento al più presto e sarei felice se fossero proprio i parlamentari calabresi a farsene carico. Tanto più alla luce della mobilitazione delle testate locali».(r.desanto@corrierecal.it)
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