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«In Calabria malati di cancro troppo spesso “abbandonati” dal sistema sanitario»

Intervista a Pierpaolo Correale, primario di Oncologia del Gom. «Il 90% delle fughe dovuto alla mancanza di risposte dopo la diagnosi. Medicina territoriale disfunzionale, serve un raccordo con gli…

Pubblicato il: 09/03/2022 – 6:35
di Emiliano Morrone
«In Calabria malati di cancro troppo spesso “abbandonati” dal sistema sanitario»

Oggi Corriere Suem dà un quadro dell’Oncologia in Calabria: come procede e come si potrebbe migliorare l’assistenza ai malati di tumore; quali sono le criticità e le potenzialità; qual è, e se può intensificarsi, il livello di collaborazione tra gli specialistici e le diverse strutture esistenti. Sono inevitabili i viaggi della speranza? Si può sviluppare una buona integrazione tra ospedale e territorio? Per i malati di cancro saranno utili le 91 nuove strutture di assistenza territoriale programmate dalla Regione e dal commissario Roberto Occhiuto nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza? Ne abbiamo parlato con il primario Pierpaolo Correale, che nel Grande ospedale metropolitano di Reggio Calabria dirige l’Unità operativa complessa di Oncologia. Correale si è laureato con lode in Medicina e Chirurgia nell’Università di Napoli, dove con la stessa valutazione si è specializzato in Oncologia medica. È inoltre dottore di ricerca in Oncologia e ha lavorato anche all’estero, soprattutto sulle terapie innovative contro i tumori. È di 34 il suo h-index, cioè l’indice sulla prolificità e sull’impatto di ogni autore di pubblicazioni scientifiche.

Come vengono curati i pazienti oncologici nel territorio calabrese?
La gestione dei pazienti oncologici è per definizione complessa e multidisciplinare. Il territorio ha un ruolo fondamentale nella fase di screening, nella diagnosi precoce e soprattutto nella gestione cronica dei pazienti, inclusi quelli in trattamento specialistico, fino al supporto del paziente terminale. 
Questo tipo di strategia ha bisogno di un’interazione continua tra strutture territoriali e centri di rifermento ad alta specializzazione, in cui andrebbe concentrata l’esecuzione di prestazioni complesse di tipo diagnostico, chirurgico, radioterapico e farmaco-oncologico (chemioterapia, immunoterapia e terapia bersaglio molecolare). È intuitivo, quindi, che la diagnosi di tumore o almeno il sospetto di neoplasia debba avvenire nelle strutture periferiche, che poi avrebbero la responsabilità di indirizzare il paziente al centro specialistico più vicino, per l’attivazione di un percorso di diagnosi e cura mirato e personalizzato.  Il ruolo delle strutture territoriali non finisce qui. Tali strutture avrebbero anche il compito di aiutare gli specialisti a sostenere il paziente a domicilio o nelle sue vicinanze, quando sono necessarie terapie di supporto, riabilitazione e supporto psico-sociale. Queste prestazioni potrebbero avvenire in collaborazione e coordinamento con i centri specialistici. Le complicanze lievi di malattia e gli effetti collaterali di lieve entità possono essere curati in loco, senza la necessità di ricorrere all’ospedale, evitando inevitabili ritardi che possono determinare eventi gravi o addirittura letali per il paziente. A queste considerazioni si va ad aggiungere anche il capitolo dei pazienti terminali, per i quali le cure palliative sono di pura pertinenza territoriale. Spesso questi pazienti, provati da anni di cure e viaggi della speranza in centri regionali ed extraregionali, chiedono solo di avere un percorso di fine vita che rispetti la loro dignità di esseri umani. 
La mia amara considerazione è il riscontro, in Calabria, di una medicina territoriale disfunzionale, per cui gran parte dei suddetti pazienti va a sovraffollare i presìdi di pronto soccorso, entrando in percorsi diagnostici e di cura spesso inappropriati ed in condizioni cliniche critiche, dunque con possibilità di cura limitate.   
Il mio discorso, quindi, è un grido di dolore: chiedo a voce alta un percorso di collaborazione dinamico tra ospedale e territorio; quel territorio che dovrebbe essere il cuore della sanità e che soprattutto in ambito oncologico è una risorsa irrinunciabile. Purtroppo, in questo contesto operativo la buona volontà mostrata da alcuni sanitari e medici di Medicina generale serve a poco, senza un piano organizzativo che preveda una logistica adeguata e un’organizzazione solida. La condizione di deficit organizzativo territoriale purtroppo è un po’ diffusa in tutta Italia, a fronte di una condizione endemica come quella oncologica. Tuttavia, con la presenza nel Centro e nel Nord di grossi centri di riferimento oncologici (Irccs, aziende di rilievo nazionale, aziende universitarie) e di reti oncologiche consolidate, l’entità del problema è stata attutita e soprattutto poco percepita dall’utenza. La pandemia Covid-19, che invece è esplosa in acuto, ha rivelato nella sua pienezza l’entità del problema e le conseguenze legate ad un territorio sanitario debole.

Qual è il suo punto di vista sull’organizzazione del Servizio sanitario regionale rispetto alla cura dei tumori?
Ripeto, ho sempre creduto che il paziente oncologico vada intercettato e preso in carico sin dall’inizio: introdotto in un percorso predefinito, monitorato fin dalla diagnosi. Il paziente non va mai abbandonato, non deve perdersi nell’angoscia del dubbio o disperarsi di fronte alla prenotazione di una vista o di un esame diagnostico. Soprattutto, non deve trovarsi da solo di fronte alla scelta di un sostegno terapeutico. In questo contesto il Distretto, attraverso i centri di coordinamento territoriale (Cot), servendosi del medico di Medicina generale, della telemedicina, delle Case della comunità, degli Ospedali di comunità ed in piena collaborazione con le strutture specialistiche, potrebbe offrire al paziente la possibilità di essere guidato nel percorso di cura. Questa iniziativa potrebbe rappresentare una vera e propria rivoluzione, nella gestione dei pazienti oncologici calabresi. 
Deve essere ben chiaro un punto: l’infrastruttura telematica che registra il paziente deve classificarlo subito per patologia e inserirlo d’ufficio in un percorso diagnostico-terapeutico predefinito. È una condizione indispensabile per il funzionamento del sistema. Il centro di coordinamento avrebbe il compito di stabilire gli esami da eseguire, la tempistica con cui devono essere eseguiti e di prendere gli appuntamenti con il centro più vicino (pubblico o convenzionato) e disponibile. Avrebbe inoltre, la funzione di indirizzare il paziente alla struttura specialistica adeguata (Hub o Spoke che sia), al fine di inserirlo, per specificità di malattia, in un Pdta preordinato e accreditato per la presenza di infrastrutture e figure specialistiche. Oppure, se il paziente fosse cronicizzato o terminale, il centro di coordinamento avrebbe il compito di indirizzarlo all’assistenza territoriale per la gestione più adeguata.  
Un sistema moderno di governance oncologica deve inoltre prevedere, oltre agli specialisti e agli infermieri, anche figure di supporto che siano in grado di gestire il sistema al di fuori degli ordinari interventi diagnostico-terapeutici. Tra questi segnalo gli ingegneri gestionali, i programmatori, gli esperti di telemedicina, i case manager, data manager, gli psicologi, i nutrizionisti, gli assistenti sociali e i fisioterapisti. 
Alla luce dei recenti sviluppi legati al Pnrr sul potenziamento e sulla riorganizzazione dell’assistenza territoriale, sono convinto che questo progetto si possa finalmente realizzare.

Come è messa la Calabria rispetto all’utilizzo delle nuove terapie contro il cancro? Quali sono, quanto, dove e come si usano in Calabria? Quali sono i risultati?
In Calabria il trattamento farmaco-oncologico, anche se a macchia di leopardo, è sicuramente all’altezza della sfida continua che gli viene proposta in termini di attualità dell’offerta terapeutica. Le quattro Aziende ospedaliere calabresi e qualche Spoke periferico sono in grado di utilizzare le migliori cure farmacologiche disponibili. Centri di riferimento come il nostro e le due Unità complesse catanzaresi sono inserite in una rete di sperimentazioni cliniche controllate, quindi sono in grado di offrire molti farmaci ancora non disponibili a livello commerciale. L’immunoterapia, i farmaci biologici e quelli a bersaglio molecolare sono sicuramente nel nostro bagaglio terapeutico. Inoltre, negli ultimi cinque anni abbiamo realizzato l’infrastruttura sanitaria (Unità di farmacia, Immunoistochimica e Laboratori di biologia molecolare ecc.) e soprattutto culturale per poterli usare al meglio, in indicazione, sicurezza e contenimento della spesa. 
Abbiamo dovuto fare un grosso sforzo in termini di gestione amministrativa, poiché questi farmaci sono ad alto costo e necessitano di monitoraggio continuo per avere accesso alla piena rimborsabilità e al fondo nazionale dei farmaci innovativi. Devo dire con grande soddisfazione che il loro uso routinario ha avuto un grande impatto sulla sopravvivenza e soprattutto sulla qualità di vita di tanti pazienti. 
Purtroppo, devo dire che gli stessi risultati non sono stati ottenuti nei casi in cui il paziente aveva accesso al nostro centro attraverso il Pronto soccorso e/o nei casi in cui era richiesto un coordinamento funzionale con Chirurgie e Radioterapia, nonostante la presenza di Pdta aziendali condivisi e di validi professionisti in tutte le branche coinvolte. 

Inaugurazione del nuovo reparto di Oncologia del Gom

Quanto e come, al Gom, l’emergenza Covid ha inciso nella cura dei pazienti oncologici?
Ha stravolto il sistema organizzativo che con tanto sforzo avevamo creato negli ultimi cinque anni. In pochi mesi ci siamo visti ridurre il personale medico e infermieristico, anche a fronte di un aumento dei casi oncologici in cura da noi. Abbiamo cercato di affrontare i cambiamenti riorganizzando le risorse giorno per giorno, per rispondere alle continue delibere ed iniziative che arrivavano dalla Direzione strategica in affanno, senza far ricadere la pressione sui pazienti. Ci siamo sentiti come pedine di una scacchiera, di fatto senza essere messi al corrente del piano operativo e dei rischi a cui si andava incontro.
Ad oggi somministriamo circa 60 terapie al giorno oltre ad una significativa attività ambulatoriale e alla gestione di circa 20 ricoveri ordinari.
Posso confermare che i pazienti tipicamente medici e in terapia farmaco-oncologica hanno avuto la migliore assistenza possibile. Purtroppo, ben diversa è la situazione per quelli che necessitavano di cure oncologiche combinate e di collaborazione con altre aree interventistiche, spesso falcidiate dall’emergenza Covid. Ciononostante, contando sulla dedizione e la professionalità di molti colleghi, siamo riusciti a definire e ad attivare diversi percorsi diagnostico-terapeutici aziendali per le patologie più comuni e severe come il carcinoma polmonare, i tumori gastroenterici, i tumori della mammella e i tumori ginecologici. Ovviamente, la funzionalità di questi percorsi non può prescindere da un coordinamento aziendale adeguato, in termini di logistica, infrastruttura telematica e collegamento a Cup, Ps e altre divisioni ospedaliere.      

Come è organizzato il suo reparto? Quali sono le difficoltà quotidiane con cui il “suo” reparto deve fare i conti? Come funziona? Qual è il rapporto che ha con il Territorio? Si registrano carenze di organico? Di che cosa ha bisogno perché funzioni al meglio?
La nostra Unità operativa gestisce fondamentalmente tre servizi: Ambulatoriale/Sevizio di consulenze (nuovi casi, follow up, terapie orali e gestione tossicità lieve), Day Service/Day Hospital (trattamento onco-farmacologico, programmazione indagini diagnostiche ed esami ematochimci) e reparto di degenza (gestione pazienti complessi con gravi comorbidità, complicazioni ed eventi avversi). A questi si va ad aggiungere un’Unità operativa semplice di terapia innovative, che si assume l’onere di gestire terapie complesse, nuovi farmaci immunologici e biologici. Questa Unità operativa ha il compito di confrontarsi con una rete nazionale scientifica per l’utilizzazione ottimale e per la gestione di eventi avversi molto diversi da quelli tradizionalmente legati alla chemioterapia. L’Unità operativa ha, inoltre, il compito di tenere sotto controllo la parte amministrativa, spesso delicata e complessa, legata all’uso di questi farmaci. 
La nostra Oncologia, in base ai flussi rilevati dalla direzione strategica, avrebbe bisogno di almeno altre 3 unità mediche specialistiche, 3 unità infermieristiche aggiuntive e soprattutto di figure sanitarie e amministrative (psicologo, nutrizionista, case manager, data manager, data entry, segreteria) che ci aiutino ad alleggerire la soffocante, ma necessaria attività burocratico-amministrativa e, soprattutto, che ci aiutino nella gestione della attività di management e tutoraggio dei pazienti. 
Io ritengo che un’Oncologia moderna debba essere integrata in un sistema di aggiornamento professionale continuo, con un’interazione congressuale e scientifica che mantenga la divisione in una rete oncologica nazionale, in modo da giocare un ruolo interattivo, piuttosto che un ruolo passivo come avvenuto in passato. L’oncologo non deve essere un mero prescrittore di farmaci, magari di cui neanche conosce il meccanismo d’azione. Piuttosto deve essere un professionista capace di formulare strategie terapeutiche sulla base di una solida conoscenza dei razionali scientifici, della medicina interna e soprattutto del paziente/persona. La comunicazione, l’empatia, l’interazione umana e il team working sono tutti elementi che devono essere migliorati e su cui spero che ci sia un grosso impegno di tutti nei prossimi anni.  
Un altro aspetto da rafforzare è sicuramente quello dei rapporti con il territorio reggino, soprattutto con la rete di terapie palliative, che negli ultimi anni è stata notevolmente indebolita dalle vicende commissariali e dalla pandemia. 
La dimissione in continuità terapeutica dei pazienti complessi, la necessità di lunga degenza territoriale, la gestione delle terapie di supporto domiciliari e del paziente terminale, la gestione dei pazienti in terapie orali e della prima risposta agli eventi avversi: sono tutti argomenti che dovremmo definire col territorio, nei prossimi anni.    

Come sta procedendo l’iter perché l’ospedale di Reggio Calabria diventi Irccs?
L’Oncologia medica, insieme con l’Ematologia, il Centro trapianti, la Nefrologia, il Cnr e diversi amministrativi capitanati dall’allora commissario straordinario Iole Fantozzi, ha fatto per circa due anni uno sforzo enorme per mettere a punto la documentazione ed il progetto operativo e strutturale necessari all’ottenimento di un target così ambizioso. Questa impresa ci ha fatto scoprire le potenzialità del Gom in termini di produttività, che lasciano ben sperare per il futuro. Sia chiaro che la creazione di un Irccs calabrese deve prevedere un netto cambio di mentalità aziendale e una progettualità scientifica che ha delle chance operative solo se troviamo il modo di remare in un’unica direzione, superando personalismi e attriti interni. 

Di recente sono uscite diverse denunce pubbliche sulle carenze dell’ospedale di Reggio. Qual è il suo punto di vista? Sono fondate? Come, all’occorrenza, si potrebbe intervenire?
Non posso ovviamente entrare nella polemica senza crearne una anch’io. Tuttavia, mi sento di dire che una cultura manageriale sanitaria e un’organizzazione aziendale strutturata secondo i principi del Public health management – con una vision e, soprattutto, una mission condivisa con il personale sanitario – migliorerebbe in maniera sostanziale la qualità e la quantità delle prestazioni, valorizzerebbe il grande lavoro di alcuni grandi professionisti che operano all’interno del Gom e porrebbe le basi per una solida e ambita alleanza tra ospedale e utenza. Insomma, sarebbe un’arma micidiale contro gli avvoltoi che amano volteggiare da anni sull’ospedale alla ricerca di un pasto facile, di un immeritato posto al sole o di una preda ferita su cui lanciarsi a proprio vantaggio.
Ovviamente, nella nostra regione un processo di aziendalizzazione sanitaria efficiente necessita di una rivoluzione in termini di uomini e mezzi, di una valida organizzazione del lavoro, di verifiche correttive – costruttive, non distruttive – continue e soprattutto di ascolto del personale e dell’utenza. Una rivoluzione quanto mai necessaria, atta a creare dei team working efficienti e che faccia tornare negli operatori la fiducia nella Direzione aziendale e la passione per il servizio sanitario, riducendo al minimo la litigiosità interna e fenomeni di demansionamento, mobbing e reverse mobbing.   

Crede che un rafforzamento del proprio management possa giovare all’Azienda ospedaliera?
Assolutamente sì.

Visto che la sanità calabrese è sottoposta a commissariamento per il rientro dal disavanzo, pensa che ci sia modo per controllare e contenere meglio le spese nel suo settore? Qual è la strada che suggerisce?
Il management aziendale sanitario, nonché il potenziamento delle figure amministrative in area logistica, informatica, farmaco-economica, giuridico-amministrativa e marketing, sono la chiave di un’azienda ospedaliera efficiente, efficace, fondata sul principio dell’economicità, che valorizzi al meglio le sue risorse in termini di prestazioni e personale sanitario e soddisfi le reali esigenze dell’utenza.

Che rapporto c’è tra le Oncologie e le Chirurgie della Calabria? Potrebbe essere migliorato? Se sì, come? 
Ho la sensazione che in Calabria ci siano dei rapporti di stima professionale e, talvolta, anche di collaborazione tra persone. Ma mi pare che non esista alcuna collaborazione formalizzata e definita da protocolli funzionali. Negli ultimi cinque anni ho partecipato a diverse riunioni sulla rete oncologica regionale, nelle quali si avvertiva un desiderio di normalizzare le procedure diagnostico-terapeutiche, ma senza affrontare coerentemente il rapporto tra gli oncologi, i diagnosti, i chirurghi e radioterapisti. 
Io sostengo che sia necessario istituire degli Stati generali, cioè un laboratorio di idee per patologia, che includa rappresentati di tutte le figure interventistiche e diagnostiche territoriali e centrali, cominciando a sentire insieme i direttori ed eventualmente i responsabili di patologia, per poi stendere dei piani operativi da sottoporre al legislatore regionale e alla struttura commissariale.    
Il primo passaggio è sicuramente una ricognizione degli specialisti di area, delle strumentazioni e della capienza e tipologia di prestazioni, di cui non esiste contezza nella nostra regione. Un’analisi onesta e chiara ci direbbe quali strutture vanno rinforzate e quali invece sono già pienamente operative.

Qual è il suo giudizio sulle attività di prevenzione dei tumori, sia a livello regionale che nel territorio reggino?
La prevenzione primaria e secondaria è da sempre in carico al distretto territoriale su indicazione e legislazione regionale. Tuttavia, anche la diagnosi precoce cade nel nulla, se poi il paziente è abbandonato nel sistema, se non ha un collegamento automatico con le strutture diagnostiche di primo livello e successivamente con un centro specialistico.
Bisogna considerare che il 90% delle fughe avviene perché, a fronte di una diagnosi iniziale eseguita sul territorio, il paziente non trova poi né accoglienza né risposte adeguate nel sistema sanitario calabrese. Di conseguenza, viene attirato nella rete di chi ha già da anni una solida struttura di marketing e accoglienza. Ovviamente sono i pazienti benestanti e quelli chirurgici a usufruire di questo sistema, mentre rimangono abbandonati quelli più deboli sul piano socio-economico e con patologie neoplastiche più complesse (toracico-polmonari, pancreatico-biliari etc) e forme tumorali avanzate. Ovviamente, questi ultimi presto o tardi si rivolgono alle strutture di Pronto soccorso, travolgendo la capacità di servizio delle aziende ospedaliere. Lascio all’immaginazione dei lettori che cosa possa essere successo negli ultimi due anni con la riduzione delle prestazioni chirurgiche legate alla carenza di personale medico, associata alla difficoltà negli spostamenti e alla scomparsa dell’assistenza domiciliare e della palliazione domiciliare.    

Qual è stato, negli anni, il livello di ascolto dei decisori politici?
Negli ultimi due anni, le vicende legate al commissariamento statale sempre più autoritario e, soprattutto, alla debolezza nell’apparato politico regionale (cominciando dalla perdita del presidente Santelli fino e alla crisi pandemica), non hanno consentito una collaborazione tra il legislatore, tecnici della salute e specialisti. Ometto di commentare il ruolo dei commissari ad acta, persi nella tempesta montana senza bussola per orientarsi. Ho consapevolezza che la nuova struttura regionale abbia contezza della situazione e sono ottimista sulla volontà di porvi rimedio. D’altro canto, sono convinto che tutta la dirigenza medica sia pronta a collaborare.    

Parliamo anche di proposte. Come potrebbe essere riorganizzata l’Oncologia in tutto il territorio regionale?
Sarà compito della politica regionale riscoprire il ruolo delle risorse professionali a sua disposizione per costruire un piano condiviso che lasci da parte il settorialismo e le resistenze di élite, nell’interesse dell’utenza calabrese. 

Come potrebbe essere ridotta l’emigrazione sanitaria, con riferimento ai pazienti oncologici?
Come ho già detto, le fughe si combattono prendendo in carico il paziente dall’inizio, inserendolo in un algoritmo efficiente ed efficace di diagnosi e terapia. Il motto è «il paziente oncologico va guidato posso dopo passo e mai lasciato solo». Contiamo di poter definire in tempo utile un modello sperimentale che parta dal territorio e segua il paziente nei centri specialistici in ogni fase del suo percorso. 

Lei viene dalla ricerca scientifica. Come è messa la Calabria, a livello di studi epidemiologici in merito alla diffusione dei tumori?
Io vengo da una scuola oncologica che mi ha insegnato che non è possibile fare una buona Oncologia senza avere una mentalità scientifica, a prescindere dal ruolo ospedaliero, universitario o in Ircss. Non esiste il ruolo del mero prescrittore di farmaci. Si tratta di un atteggiamento molto diffuso dietro il quale qualcuno desidera nascondersi in un’ottica di medicina difensivistica o di interesse personale. Noi abbiamo il compito di conoscere le strategie terapeutiche che utilizziamo, farmaci, anticorpi monoclonali o agenti biologici che siano. Dobbiamo studiare i loro meccanismi d’azione, la fisiopatologia della malattia che curiamo, le interazioni tra farmaci. Dobbiamo essere capaci di riportare delle osservazioni utili alla nostra crescita e a quella della comunità oncologica. 
Le linee guida ci aiutano, ma abbiamo la responsabilità di comprendere che cosa c’è cosa indicano, soprattutto se sono applicabili nel caso concreto del singolo paziente, che potrebbe essere molto diverso da quello arruolato negli studi clinici registrativi. La ricerca è questo: studio continuo, mentalità aperta, disponibilità al cambiamento, collaborazione con le case farmaceutiche e con l’industria, ma sempre mantenendo uno spirito critico costruttivo e l’interesse per il paziente.  
Purtroppo in Calabria ho trovato grandi difficoltà al mio arrivo, poiché la ricerca era guardata con diffidenza al di fuori delle strutture universitarie; anche perché veniva identificata con la ricerca interventistica sponsorizzata, su cui ruotano tanti interessi economici. Poi nel corso del tempo questa diffidenza si è in parte affievolita, sicché abbiamo potuto riaprire con successo la nostra rete di collaborazioni nazionale e internazionale. Oggi l’Oncologia del Gom, nei suoi studi sui biomarker, prevenzione di eventi avversi, modelli immunologici e ruolo dell’infiammazione in oncologia, collabora attivamente con le università di Catanzaro, “Tor Vergata” di Roma, con “Vanvitelli” di Napoli e con l’ateneo di Siena, con lo“Sbarro Institute/temple University” di Philadelphia, con l’Università della Florida e con la “North Earstern University” di Boston. Senza contare le continue interazioni con le grosse strutture oncologiche del Centro e del Nord dell’Italia, con cui condividiamo un atteggiamento di lealtà e reciproco rispetto, per raggiungere la migliore assistenza oncologica dei nostri pazienti. (redazione@corrierecal.it)

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