“I Padri Fondatori diedero alla libera stampa la protezione che le spetta per svolgere il suo essenziale compito nella nostra democrazia. La stampa serve chi è governato, non chi governa!”
Quello che precede è un passo fondamentale, tornato alla ribalta dopo l’uscita del film di Steven Spielberg, “The Post”, di una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti risalente al 1971 e riguardante i Pentagon papers, di recente declassificati e resi pubblici nella loro integralità.
Basterebbe questo per comprendere la centralità del ruolo della stampa, di una stampa libera e priva di condizionamenti, nelle moderne democrazie, ma anche per intuire che il nostro Paese è purtroppo lontano anni luce non solo dal realizzare la libertà di stampa, peraltro riconosciuta e tutelata dalla Costituzione Repubblicana, ma anche di porre in essere quei comportamenti e, soprattutto, quelle disposizioni normative volte a rafforzare il principio secondo il quale la stampa, appunto, è al servizio della comunità e non dei governi.
Gli attacchi alla libertà di stampa si sono fatti, negli anni, sempre più sottili nel metodo, ma sempre più pesanti nel merito, attraverso la proposizione di azioni giudiziarie, tanto di carattere penale (denunciando la presunta diffamazione aggravata), quanto in sede civile (dove, come è noto, non occorre provare che i comportamenti siano stati compiuti con dolo o colpa), che molto spesso vengono archiviate perché del tutto prive di qualsivoglia fondamento. Ma si tratta di azioni volte esclusivamente a spaventare e scoraggiare la libera stampa (che in molte occasioni è rappresentata da giovani giornalisti precari privi di qualsivoglia tutela), rispetto a inchieste, reportage, servizi, ecc., che molto spesso – direi troppo spesso – riguardano personaggi pubblici (titolari di cariche istituzionali), capitani d’industria, imprenditori, ecc. che, al contrario, possono avvalersi, anche in ragione della posizione, del ruolo sociale e delle disponibilità economiche, di interi e agguerriti collegi di avvocati e consulenti. Certo l’esasperante lentezza della macchina giudiziaria – una sorta di spada di Damocle che per mesi, talvolta anni, incombe sulla testa del giornalista – finisce per alimentare un circolo vizioso volto esclusivamente a tacitare, a ridurre al silenzio, a “standardizzare” l’informazione che sempre di più eviterà inchieste scomode che coinvolgono personaggi pubblici. Già che in questa società liquida le notizie e le informazioni sono destinate a durare giusto qualche ora, anche grazie alla complicità dei social, ma che con mezzi fraudolenti si debba tener nascosto, per paura di ritorsioni, la verità su personaggi pubblici, è circostanza che le democrazie moderne non posso permettersi, pena la creazione di un sistema autoritario e liberticida.
Ecco perché il diritto fondamentale ad agire, nelle opportune sedi giurisdizionali, a tutela dei propri diritti e interessi, quando si ritiene che siano stati intaccati l’onore, la credibilità e la propria immagine o, peggio, siano state pubblicate notizie false e tendenziose, deve necessariamente trovare un bilanciamento (con l’altro diritto fondamentale alla informazione e alla conoscenza delle notizie) che passa attraverso strumenti giuridici efficaci volti a punire le “azioni temerarie”, quelle iniziative, cioè, che per impedire o limitare la libertà di stampa, contengono richieste risarcitorie milionarie. La legge può senz’altro prevedere che l’infondatezza della domanda risarcitoria sia duramente punita. Ciò è quanto prevede una proposta di legge (primo firmatario il Sen. De Nicola) che, se approvata, fornirebbe uno scudo sufficiente a chi coltiva l’idea che la stampa è uno dei principali controllori delle democrazie moderne. Diversamente, le nuove generazioni di giornalisti si limiteranno alla cronaca rosa o, senza nulla togliere alla sua serietà, alle pagine di sport.
*ordinario di Diritto pubblico comparato
Università degli Studi di Brescia
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