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«Contabilità di guerra e double standard nel giornalismo»

«Non c’è titolo di tg o collegamento degli inviati che non inizi con il conteggio dei giorni dall’inizio della guerra in Ucraina. “Siamo al settimo giorno di guerra”, “Al sedicesimo giorno degli s…

Pubblicato il: 14/03/2022 – 15:01
di Rosaria Talarico
«Contabilità di guerra e double standard nel giornalismo»

«Non c’è titolo di tg o collegamento degli inviati che non inizi con il conteggio dei giorni dall’inizio della guerra in Ucraina. “Siamo al settimo giorno di guerra”, “Al sedicesimo giorno degli scontri” e via così. E però, senza sminuire per nulla ciò che accade in Ucraina, vorrei ricordarvi che in Sudan la guerra dura da 10950 giorni. In Etiopia siamo a 8468. Nella Repubblica democratica del Congo sono 2920. Mentre il Mali ha totalizzato 3650 giorni di conflitto. Da 2555 giorni che c’è la guerra in Yemen, con incluso massacro di civili, in special modo bambini. Si tratta di ANNI, se modifichiamo l’unità di misura che ho scelto per rendere i numeri confrontabili. Non mi metto a fare questa macabra contabilità, ma sia i morti che i rifugiati sono milioni. Oltre l’Ucraina, ci sono circa altri 50 Paesi nel mondo dove sono in corso guerre. Indipendentemente dal fatto che voi lo sappiate o meno, c’è chi continua a combattere e a morire per cause più o meno giuste. Molte di queste guerre sono in Africa, dove Salvini non si sognerebbe di andare a portare aiuti con le sue felpe multibrand. Tutto il Nordafrica peraltro è geograficamente molto più vicino dell’Ucraina: ci divide un mare diventato spesso tomba, anche della nostra indifferenza. Ma lì al criterio geografico si sovrappone quello politico, così come nel caso di Israele-Palestina. E poi Afghanistan, Siria, Libia… con i loro conflitti più mediatici, a seconda del momento. O Cina-Tibet, Corea del Nord, Myanmar. Un po’ con l’assassinio dell’ambasciatore Attanasio e della sua scorta si è aperta una fugace breccia sulla situazione del Congo per poi rapidamente sparire dalle pagine dei giornali, relegando la faccenda ai pochi addetti ai lavori. A volte si tratta della persecuzione di minoranze etniche, altre di conflitti religiosi sotto cui però si celano più prosaiche ragioni economiche: petrolio, oro, diamanti, posizioni geograficamente strategiche (com’è lo sbocco sul Mar Nero per la Russia… mica vi sarete bevuti la storiella dell’identità russa del Donbass e della Crimea, prontamente sciorinata da Putin?). In quest’epoca, ciò che non vediamo non esiste, ma per molta parte della popolazione si dovrebbe tradurre in “ciò che non ci fanno vedere gli algoritmi dei social network” non è mai successo e non è vero. Eppure la gente continua a soffrire e morire anche se voi preferite non saperlo. E questo vale anche per le redazioni dei giornali e le newsroom dei network televisivi. Uno dei classici criteri di notiziabilità che si studia nei manuali di giornalismo è la vicinanza della notizia rispetto al lettore/spettatore. Più il fatto è vicino, più ci riguarda e siamo interessati a saperne di più. Sarà egoistico, sarà ingiusto, ma è una regola fisiologica e ineliminabile. Aggiungiamo a questo che in Italia gli esteri sono da sempre un’area negletta del giornalismo, con qualche lodevole eccezione tra le testate. Ora c’è un pullulare di “inviati di guerra” che testimoniano innanzitutto di essere sul posto e come hanno fatto ad arrivarci. Ma il giornalista non dovrebbe essere testimone e non protagonista della cronaca? O pensate che scimmiottare influencer che a stento hanno concluso l’obbligo scolastico renda un servizio alla professione e agli spettatori? Il giornalismo per come me lo hanno insegnato è fare il contrario dell’algoritmo: suggerendo letture originali, approfondite e non stereotipate. Scovando opinioni alternative e non omologate che stimolino la riflessione. Senza contare che pagare 50 euro un reportage non aiuta nè la qualità nè la dignità di chi ancora prova a fare questo mestiere tra i vaffa dei grillini, accuse di essere “mainstream” e al soldo di non si sa chi (visto che i giornalisti sono quasi tutti sul lastrico, solo che il pubblico non lo sa!) e la “disintermediazione” cavalcata per prima dai politici desiderosi di non avere intralci nel rapporto con il pubblico, soprattutto quando si tratta di ricordare la loro incoerenza, nel migliore dei casi o i reati, nel peggiore. Cercate l’approfondimento e mettete like a chi prova a fornirvelo, nonostante tutto. E prima di condividere, riflettete e leggete qualcosa in più del titolo. Io non ne ho messo nessuno di proposito!»

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