REGGIO CALABRIA Si è concluso con quattro condanne e pene fino a 8 anni di reclusione il primo grado del rito abbreviato del processo nato dall’operazione della Dda di Reggio Calabria “Pensierino”, contro le cosche “Libri” e “Morabito”.
Gli indagati sono in tutto 13 di cui 3 arrestati lo scorso 27 aprile sulla base della misura cautelare sottoscritta dal gip Vincenza Bellini. Le accuse mosse dalla procura guidata da Giovanni Bombardieri, sulla base delle indagini svolte dalla Guardia di finanza, vertevano su presunte tentate estorsioni avvenute nella zona tra Mosorrofa e Terreti.
Tra i nomi dei condannati spiccano quelli di Antonio Riccardo Artuso (8 anni di reclusione e 5.333 euro di multa), Bruno Scordo (6 anni e 8 mesi di reclusione e 5.333 euro di multa) Francesco Benedetto a 3 anni e 4 mesi di reclusione e Caterina Tripodo a 2 anni e 8 mesi di reclusione.
Lo scorso settembre la pm Sara Amerio aveva chiesto il rinvio a giudizio per tutti e 13 gli indagati tra i quali figurava anche un brigadiere della Guardia di finanza.
Al centro dell’inchiesta sono citati due episodi avvenuti con le stesse «modalità estorsive» secondo la ricostruzione. Alcuni degli imputati, per i quali si presumono legami coi clan della città dello Stretto, in particolare con quegli stessi “Morabito” anche conosciuti come “i grilli di Terreti”, avrebbero impedito la prosecuzione di alcuni lavori vincolandola alla loro interlocuzione coi titolari delle aziende attive nei cantieri di Mosorrofa e Terreti.
Tra i profili di maggior rilievo quello di Antonio Riccardo Artuso, ritenuto «intraneo alla cosca “Libri”» egemone nel quartiere di Cannavò. La necessità di interloquire con gli imprenditori – sempre secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – era legata alle richieste estorsive. A questi ultimi veniva così intimato di «mettersi a posto» e parlare «con chi dovevano parlare».
Tra gli imputati figurano anche alcune delle presunte vittime dell’estorsione: Francesco Benedetto e Caterina Tripodo, accusata di favoreggiamento personale con l’aggravante mafiosa, dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nonché per aver richiesto ad un finanziere di verificare i precedenti penali di un altro individuo accedendo allo Sdi. Secondo l’accusa, a fronte delle ipotesi di reato contestate, l’imprenditrice avrebbe dovuto rispondere di una pena pari a 8 anni di reclusione, ma il gup – pronunciando la condanna a 2 anni e 8 mesi – ha escluso l’aggravante mafiosa, assolvendo l’imprenditrice dai reati relativi alle fatture per operazioni inesistenti. (redazione@corrierecal.it)
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