CATANZARO Un patrimonio che non troverebbe giustificazione, quello dell’imprenditore Giuseppe Borrelli, di 52 anni, originario di Altomonte, attivo nell’area dell’alto Ionio Cosentino, nel Cassanese e nella Sibaritide ma anche con interessi nella città di Roma e zone limitrofe. Beni e attività sui quali pesa la longa manus del clan Forastefano. Indagini serrate che hanno portato il Tribunale di Catanzaro ha emettere, su richiesta della Dda di Nicola Gratteri, un decreto di sequestro da 22 milioni di euro. Tra i beni sequestrati ci sono quote societarie come quelle del birrificio artigianale che produce la nota birra Zion ad Altomonte; le quote societarie della ditta “Elite 70:70” con sede legale a Roma e autorimessa ad Altomonte, che si occupa di attività immobiliare e conduzione campagne marketing e altri servizi pubblicitari nonché di attività di autonoleggio. Sequestrato anche il parco macchine della società, compresa una Maserati Ghibli. Sequestrata anche la società Makerè srl con sede ad Altomonte, specializzata nella lavorazione del caffè, torrefazione e commercio di caffè torrefatto. Senza contare la Ineco holding srl, la ditta che si occupa di edilizia, trasporto merci su strada e raccolta, trasporto, recupero, riciclo, trattamento e smaltimento di rifiuti solidi urbani. L’elenco è lunghissimo e comprende i beni di cui Borrelli risulta essere intestatario o averne la disponibilità diretta e indiretta, comprese le società in cui hanno quote l’ex compagna, le due figlie, all’attuale compagna e altri soggetti. Ci sono supermercati, mezzi agricoli e da lavoro, la “Leo Racing 46:46” srl, società che si occupa di «compravendita all’ingrosso e al dettaglio di autovetture, automezzi, moto, natanti, il noleggio di autovetture, automezzi, moto, natanti, anche da corsa», con sede legale a Roma e magazzino a San Marco Argentano.
Secondo la Dda di Catanzaro Giuseppe Borrelli è un personaggio «legato alla criminalità organizzata locale e uomo di fiducia della famiglia Forastefano» cosca della Piana di Sibari. Un legame non solo d’affari ma anche familiare vista la relazione con la sorella del capo cosca Antonio Forastefano, dalla quale ha avuto due figlie.
Secondo le indagini – condotte dalla Polizia di Stato e dalla Guardia di finanza di Cosenza, coordinate dalla Dda di Catanzaro – la figura di Borrelli emerge già nell’inchiesta antimafia “Omnia”, del 2006, dove, dalla parole dei collaboratori di giustizia Bruno Adamo, Domenico Falbo e Alfio Cariati emerge «il ruolo di referente e intermediario della cosca ricoperto da Borrelli nei rapporti con le realtà imprenditoriali interessate ad investire sul territorio controllato dai Forastefano». Non solo. L’imprenditore avrebbe stretto anche legami d’affari con il figlio avuto in prime nozze dalla compagna, Francesco Faillace. I pentiti raccontano, infatti, che il clan Forastefano imponeva, per il tramite dello stesso Faillace, l’approvvigionamento di cemento dalla cava di Borrelli.
Nel 2016 Borrelli si trasferisce a Roma. La decisione sarebbe nata in seguito all’interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Cosenza nei confronti della Borrelli Giuseppe Group srl e anche in seguito alla conclusione della sua relazione con la Forastefano. Nella capitale l’imprenditore avvia una serie di attività economiche e imprenditoriali riconducibili prevalentemente al settore della raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti. Secondo la Dda di Catanzaro, però, l’uomo non recide i propri legami con la cosca Forasefano come emergerebbe dall’indagine “Kossa” condotta sempre dalla distrettuale contro le estorsioni perpetrate dai Forastefano su ogni forma di attività economica del territorio. Ebbene, tra il 2018 e il 2019, sono state eseguite una serie di intercettazioni che confermerebbero il coinvolgimento di Borrelli negli “affari” della cosca e i rapporti ancora saldi con i fratelli Angelica e Francesco Faillace.
Dalla banca dati delle Forze dell’ordine sono emerse diverse segnalazioni all’autorità giudiziaria nei confronti dell’imprenditore, «dalla ricettazione al furto, alla truffa, alla falsità materiale commessa da privato, alla falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, all’uso di atto falso, alla falsa attestazione o dichiarazione ad un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri, alla minaccia, alla calunnia, alla lesione personale, all’ingresso abusivo nel fondo altrui, all’appropriazione indebita, al riciclaggio, che è stata destinataria di ordine di custodia cautelare in carcere per sequestro di persona e di provvedimento di sequestro di beni e quote sociali – parte dei quali divenuti oggetto di confisca – unitamente a Angelica Faillace». Nel 2000, per esempio, la Suprema Corte rende definitiva la pena ad un anno e sei mesi di reclusione irrogata dalla Corte d’Appello di Catanzaro nei confronti di Borrelli per i reati di minaccia e detenzione illegale di armi e munizioni. La Dda e la Questura di Cosenza hanno proposto, oltre alla misura patrimoniale, anche la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per la durata di cinque anni. I giudici hanno fissato al prossimo 20 giugno l’udienza per la discussione su tale proposta
Secondo i giudici l’imprenditore «deve considerarsi “appartenente” al riconosciuto clan ‘ndranghetistico Forastefano». Un’appartenenza che viene definita dai giudici riconducibile a un concorso esterno. L’arco temporale di questo legame criminale – secondo il Tribunale – non si può delineare rigidamente ma può essere “calcolato” a partire dalle risultanze dell’indagine Omnia (2006) fino ad oggi. Prima di allora, a partire dal 2004, quella di Borrelli è considerata una pericolosità generica perché a quella data risale la commissione di una serie di truffe e appropriazioni indebite.
Per quanto riguarda le indagini patrimoniali, questa vanno dal 2009 al 2019.
A parere dei giudici esiste «una sproporzione tra le disponibilità e i redditi denunciati dal nucleo familiare» dell’imprenditore il quale avrebbe acquisito i propri beni dal 2004 in poi. Questa sproporzione lascia «desumere in modo fondato che detti beni costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite, non ravvisandosi allo stato degli atti elementi idonei a dimostrare una eventuale legittima provenienza del danaro utilizzato per l’acquisto di essi». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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