LAMEZIA TERME «La guerra è guerra. E il primo che arriva vince». Poche parole bastano a Paolo Bellini per riassumere il suo primo omicidio: è il 1975 e la vittima è Alceste Campanile, militante di Lotta Continua. Campanile «voleva bruciare la mia abitazione, è stato scoperto, non c’è stata la possibilità di chiedergli il perché»: non serviva sapere altro all’allora militante di Avanguardia Nazionale. Bellini è ritenuto il quinto uomo della strage di Bologna. La sua recente condanna all’ergastolo mette (per ora) un altro punto fermo sulla storia giudiziaria di uno dei misteri d’Italia. Bellini stesso, con la sua parabola criminale, resta però in ultima analisi un mistero.
Da estremista di destra a ‘ndranghetista, da killer delle cosche a pentito: la prima mutazione di Bellini avviene in carcere, la seconda quando si inceppa una 38 Special. La vittima designata è Antonio Valerio, oggi collaboratore di giustizia. Nel 1999 Valerio era sotto accusa: il “tribunale” della ‘ndrangheta lo aveva individuato come concorrente all’uccisione di un capo ‘ndrina. Bellini avrebbe dovuto portare a termine la missione di morte. Ma – mette a verbale nel processo ‘Ndrangheta stragista – «quando vado per dargli il colpo di grazia non parte il colpo, e mentre stavo girando intorno all’automobile per andare a dare il colpo di grazia, ho sentito un forte odore di acido fenico, che mi portava… non riuscivo più neanche a respirare». Tornato a casa, Bellini accende il televisore: «Era il giorno della beatificazione di Padre Pio a Roma». A quel punto il killer ricorda che «da ragazzino ero andato a Monterotondo con i miei familiari, e lo stesso odore non mi aveva permesso di entrare in chiesa allora, e il giorno dopo, dopo la messa, siamo transitati in una sala attigua alla navata della chiesa. Padre Pio si fermò, mi fece portare davanti alle spalle, mi diede due schiaffetti, e lì capii, la seconda volta che ho sentito l’odore, mi fece fare un esame di coscienza, di quelli che non finivano più». L’esame di coscienza continua sul lavoro: «Allora portavo in giro dei camion pieni di frutta e verdura, poi andavo in Olanda a caricare bestiame macellato, vitelli appesi, e dovevo andare a… adesso non mi ricordo, comunque a Monaco. Dovevo voltare a sinistra, ho tirato dritto e mi trovai quasi a Berlino, perché durante il viaggio facevo il mio esame di coscienza». La seconda mutazione è completa: «Ho detto: “Adesso, appena arrivo a casa, vado… domani, il giorno dopo arrivo a casa, saluto la famiglia e poi il giorno dopo vado a Bologna alla Dda”. Mi hanno leggermente preceduto i Nocs, che mi stavano addosso apposta per il tentato omicidio di Antonio Valerio, e lì ho collaborato, ho iniziato a collaborare».
La trasformazione da estremista nero a ‘ndranghetista avviene invece tra le mura di una cella. «Io ero in carcere a Prato per l’omicidio Fabbri. Fabbri era un mio consociato in un furti di opere d’arte. Mi misero in cella questo calabrese, questo signore calabrese, Nicola Vasapollo, che fra l’altro abitava a Reggio Emilia, aveva i parenti a Reggio Emilia». Con Vasapollo si instaura «un rapporto di scambio. Siccome era di Reggio, mi conosceva bene, e lui sapeva di me e dei miei trascorsi e dalla mia vita, io sapevo che lui era… e me lo disse lui che era con i Dragone, il clan Dragone inizialmente». Bellini ha un «sassolino» da togliersi: si ritiene truffato dal terzo che faceva i furti con lui e Fabbri. «Avevano venduto tutto quello che avevamo dentro il magazzino per centinaia e centinaia e centinaia e centinaia di milioni allora, arriviamo quasi al miliardo. E a me, siccome ero brasiliano, ero straniero, non mi dettero mai niente, e siccome ero brasiliano e straniero secondo loro, un povero cretino, non mi pagarono l’avvocato». Lo sgarbo andava pagato con il sangue: «E allora, il Fabbri l’ho ucciso, quell’altro lo stavo cercando. E con Vasapollo eravamo rimasti d’accordo in questo senso: io ti faccio il tuo, lui voleva vendicare la morte di suo fratello, morto ingiustamente, trascurato, da parte di uno dei suoi consodali, e lui mi avrebbe tolto questo sassolino. Questo era l’accordo che noi avevamo, uno scambio di omicidi». Lo scambio diventa, però, un rapporto più profondo. Prima con Vasapollo. Poi, quando gli «antagonisti» Grande Aracri fanno fuori l’amico, «per me il ruolo è diventato quello di killer, e sono andato avanti così».
Bellini spiega di non essere mai stato “battezzato”, ma si ritiene – per quanto riguarda quella fase della sua vita – un uomo di ‘ndrangheta: «Eh, certo. Ho commesso omicidi per loro, ho recuperato droga a Milano, recuperavo la droga, la cocaina per loro, certo che sì».
È in un’altra cella, nel carcere di Sciacca in Sicilia, che inizia invece la terza vita di Bellini, quella che lo porta nelle aule del processo ‘Ndrangheta stragista. È lì che stringe amicizia con Antonino Gioè, braccio destro di Giovanni Brusca e uno dei killer di Giovanni Falcone. La sua storia, così, incrocia quella dell’ala stragista di Cosa Nostra. È Gioè a chiamarlo in causa in un bigliettino trovato nella sua cella. Il luogotenente di Brusca viene trovato impiccato; accanto al corpo un “pizzino” con un riferimento a Bellini che, due anni prima, era andato in Sicilia per conto dei carabinieri del Nucleo patrimonio artistico per imbastire una trattativa coi mafiosi. Secondo Brusca fu proprio Bellini a far balenare l’idea degli attentati al patrimonio artistico: «Se ammazzi un magistrato ne arriva un altro», avrebbe detto a Gioè. «Se butti giù la torre di Pisa lo Stato deve intervenire». (p.petrasso@corrierecal.it)
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