CATANZARO Pino e Luciano Scalise, padre e figlio, sono stati riconosciuti dal gup di Catanzaro Pietro Carè, parimenti responsabili di essere i mandanti dell’omicidio dell’avvocato Francesco Pagliuso avvenuto il nove agosto 2016 per opera – così stabilisce, al momento, la sentenza di primo grado che lo ha condannato all’ergastolo – di Marco Gallo, uomo particolarmente legato a Luciano Scalise. Secondo il gup, è scritto nelle motivazioni della sentenza “Reventinum” che condanna entrambi all’ergastolo, Luciano Scalise è senz’altro anche il «latore della decisione omicidiaria essendo il soggetto che intrattiene i rapporti con Gallo, ne garantisce la remunerazione dei servigi instaurando un rapporto quasi di sangue, riceve la prima notizia del buon esito dell’incarico (attraverso un sms scambiato nell’immediatezza dell’omicidio) e si preoccupa della strategia difensiva e di un sostegno economico alla famiglia del killer, contemporaneamente preparandosi a un’eventuale latitanza».
D’altro canto non viene meno il ruolo di storico capo cosca del padre Pino Scalise che, dalle risultanze intercettive, appare consapevole di quanto commesso da Gallo. E non scagiona Pino Scalise nemmeno l’ormai noto episodio del bosco, quando l’avvocato Pagliuso venne condotto in montagna, malmenato, accusato di non condurre la difesa di Daniele Scalise secondo i desiderata della cosca e posto davanti a una buca. In quella occasione più testimonianze narrano che fu l’intervento di Pino Scalise a a impedire che il figlio Daniele e i suoi accoliti uccidessero l’avvocato e gettassero il corpo in una buca. A parere del giudice, nel “gioco delle parti”, «costituisce dato di fatto la titolarità esclusiva, da parte dell’imputato, del potere di impedire un omicidio (e, per converso, quello di decretarlo)». Il movente del delitto risiede nella vendetta per i «caduti della cosca (Daniele Scalise, Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo)», una decisione che è illogico possa essere stata assunta in modo autonomo da Luciano Scalise senza confrontarsi col padre capo cosca: «si tratta, infatti, di una decisione – l’uccisione di un soggetto della società civile, estraneo a dinamiche criminali – idonea ad incidere, per gravità ed eclatanza, in modo decisivo sui destini del gruppo», scrive Carè.
Sono diversi gli elementi sui quali lavorano i carabinieri e i magistrati della Dda di Catanzaro per individuare moventi e responsabilità sull’omicidio dell’avvocato Pagliuso. Tra le varie cose vi sono gli elementi forniti dalle dichiarazioni della sorella della vittima, l’avvocato Antonia Pagliuso. La donna riferisce agli inquirenti: dello “scontro” con il latitante Daniele Scalise avvenuto nello studio dell’avvocato Antonio Larussa e del successivo episodio del bosco; della “cattiva pubblicità” fatta a Pagliuso da Daniele Scalise in carcere con un altro detenuto, Vincenzo Cimino; della revoca di ogni incarico difensivo da parte anche di Luciano Scalise dopo la morte del fratello Daniele Scalise; della “visita” di Pino Scalise all’avvocato Pagliuso dopo l’omicidio dei sodali Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo da parte di Domenico e Giovanni Mezzatesta (dei quali l’avvocato aveva preso la difesa). Domenico Mezzatesta era latitante e Pino Scalise si recò da Pagliuso per dirgli che “sbagliava a difendere Mezzatesta” e per avvertirlo di “fare attenzione” ai suoi spostamenti perché “quelli là”, ovvero gli esponenti della cosca Iannazzo ai quali erano collegate le vittime, ne osservavano i movimenti, insinuando che Pagliuso andava a incontrare il latitante; dei contenuti dell’arringa difensiva fatta da Francesco Pagliuso durante il processo a Domenico e Giovanni Mezzatesta, in cui l’avvocato aveva fatto esplicito riferimento agli interessi delle famiglie Scalise-Vescio-Iannazzo sulla costruenda strada del Medio Savuto; della funzione da tramite con il latitante Mezzatesta svolto da Luigi Aiello detto “Sceriffo”, il quale spesso si era recato nello studio Pagliuso e che era stato ucciso il 21 dicembre 2014, probabilmente proprio per il suo legame con Mezzatesta; della notizia appresa da Domenico Mezzatesta dell’inserimento del nome di Francesco Pagliuso in una “lista nera” scritta dagli Scalise; del successo professionale di Pagliuso nella difesa dei Mezzatesta e del successivo timore, da parte dell’avvocato che “adesso arriveranno in fondo alla lista”.
Durante il funerale di Giovanni Vescio – ucciso con Francesco Iannazzo dai Mezzatesta in un bar di Decollatura – il padre del ragazzo si rivoltò con Pino Scalise. Gli avrebbe detto: «Pino, mio figlio è morto per colpa di tuo figlio, quindi è meglio se te ne vai di qua». A questo punto Pino Scalise avrebbe replicato promettendo vendetta: «Non vi preoccupate che i vostri figli li vendicherò io». E aggiungendo: «Ce n’è pure per l’avvocato».
Questo racconta Domenico Mezzatesta agli inquirenti a luglio 2017, un anno dopo l’omicidio dell’avvocato Pagliuso. L’uomo è a conoscenza di diversi fatti che gli sarebbero stati riferiti da Luigi Aiello, “Sceriffo”, il quale a sua volta lo avrebbe appreso da ambienti malavitosi nei quali orbitava anche Luciano Scalise, all’epoca dei fatti «in rotta col fratello».
Fino al giorno del suo arresto, il 31 luglio 2017, Marco Gallo risultava essere un soggetto incensurato e insospettabile, senza legami noti con la criminalità comune o organizzata, con una licenza di porto darmi per uso sportivo.
Tuttavia, annota il gup nella sentenza, nel corso della perquisizione nella sua casa sono stati trovati numerosi elementi che lo collegavano agli Scalise: una foto commemorativa di Daniele Scalise; un elenco invitati composto da sei pagine nel quale compare anche Famiglia Luciano Scalise; sei fogli di buoni fruttiferi postali dal valore di 26mila euro e 14 milioni di lire intestati agli zii di Luciano Scalise; un foglio A4 con un testamento olografico redatto da Marco Gallo nel quale si precisa che la polizza rinnovata annualmente da Gallo, in caso di morte doveva essere ritirata «in modo integrale solo ed esclusivamente dal signor Scalise Luciano e suoi eredi (esclusi tutti i miei familiari)».
«Si tratta – scrive il gup – all’evidenza, di documentazione dal contenuto “sorprendente” giustificabile solo alla luce di un rapporto di tipo negoziale (la remunerazione dei servigi di un killer) e/o associativo (la cui affectio prolunga i suoi effetti oltre la morte)».
Quando Marco Gallo è stato arrestato per il delitto Pagliuso, sono state divulgate le immagini del killer che faceva finta di fare jogging vicino alla casa della vittima. «Questo è proprio uno scemunito di prima categoria», commenta Pino Scalise con la moglie, ignari di essere intercettati. Poi aggiunge: «Dolori per tutti ci sono».
E il 4 marzo 2018, leggendo i giornali sugli episodi relativi alle indagini, come l’episodio del bosco, Pino Scalise e la moglie commentano il probabile ritrovamento di un assegno, circostanza che ancora non era emersa dalle indagini. Si apprenderà dopo, nel corso del processo, l’esistenza di un assegno di 7.500 euro che Luciano Scalise avrebbe emesso in favore di Marco Gallo, incassato il 24 gennaio 2017. Gallo lo ha giustificato «in modo scarsamente verosimile» come il pagamento per la realizzazione di un impianto di videosorveglianza. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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