LAMEZIA TERME Un controesame contraddistinto da toni decisi e parole spesso fuori dalle righe. L’esame incrociato del collaboratore di giustizia Andrea Mantella, nel corso dell’ultima udienza del processo “Imponimento” in corso all’aula bunker di Lamezia Terme, è servito a mettere a fuoco alcuni punti già discussi nelle precedenti udienze, ma soprattutto la credibilità del pentito – spesso confuso e molto nervoso – e le sue accuse rivolte essenzialmente agli esponenti del clan Anello-Fruci, ma che coinvolgono indirettamente i clan del Vibonese, i Bonavota su tutti, non coinvolti comunque in questo processo.
È l’avvocato Giovanni Vecchio ad iniziare, puntando l’attenzione sulla posizione di Antonio Facciolo, 62enne vibonese, docente di filosofia e tra gli imputati del processo. «Sapevo – dice Mantella – che avesse una ditta di pulizie, ma non sapevo se economicamente fosse benestante o no. Certo che se prendeva i soldi a strozzo è chiaro per me che avesse bisogno di soldi». L’avvocato Vecchio lo incalza poi su alcuni punti salienti come le presunte estorsioni e il caso della Bmw. «Non so se fosse sotto estorsione, non so neanche se avesse subito mai attentati, so solo che era legato in qualche modo ai fratelli Bonavota». «Non so di preciso cosa abbiamo fatto con la Bmw che gli stavano prendendo, forse non aveva pagato le rate, diciamo che forse aveva problemi di puntualità delle corrispondenze». Facciolo, secondo il racconto di Mantella, «corrispondeva denaro a Paolino Lo Bianco, Franco Ceravolo e Franco Barba, erano una cosa sola. Facciolo e i Bonavota erano della stessa zona, e loro stessi lo consideravano un parente, ma penso in senso generico perché non so effettivamente se ci fosse o meno un vero legame familiare e non so che grado avesse».
Nel corso del controesame di Mantella, l’avvocato Vecchio si focalizza poi su altri punti, tra cui un “localino” realizzato alla Marinella di Pizzo Calabro, presumibilmente acquistato dai Bonavota. «Me lo hanno riferito sempre i Bonavota. Pasquale, in particolare, aveva realizzato questo piccolo locale nella Marinella, ma in gestione ce lo aveva Facciolo». «Per localino mi riferisco ad un piccolo ristorante, nel 2009 e 2010 era ancora attivo, era aperto, ma non ricordo quanti soldi avessero investito». «So che Facciolo – dice ancora Mantella interrogato da Vecchio – aveva la lavanderia “Il Pinguino”, un’altra poi a Portosalvo, sebbene fossero intestate alla moglie di mio cugino Salvatore Mantella». A proposito del cugino, il pentito ricorda che «durante i famosi pranzi, quando c’era l’idea di mettere dentro ai villaggi degli Stillitani Facciolo, c’era in cantiere anche l’idea di Salvatore Mantella. Poi sono stato coinvolto in qualche operazione giudiziaria». «Salvatore Mantella non è stato imposto, diciamo che era piuttosto una sollecitazione, una leggera forzatura anche perché Facciolo era considerato un parente». «Nel 2004, nel 2005 e 2006 ero certo che Mantella fosse in affari con Facciolo all’interno del villaggio, drenavano i soldi con le attività di lavanderia e giardinaggio, almeno fino al 2016».
Vicenda clou del controesame, l’intimidazione subita da Facciolo, con il ritrovamento del lumicino e un mazzo di fiori. Su questo episodio è ancora l’avvocato Vecchio a chiedere maggiori spiegazioni al pentito Mantella. «Ricordo innanzitutto che Facciolo abitava in un fabbricato a Sant’Onofrio, sotto ci stava una rivendita di auto, ma a casa sua non ci sono mai stato effettivamente». «Antonino Lopreiato stava prendendo sempre più territorio su Stefanaconi, insieme al cugino Fortunato Patania. Fu proprio Lopreiato a mettere quei lumicini e i fiori, una sorta di atto intimidatorio per mettere ansia a Facciolo». «Fu lui poi ad andare a raccontare tutto ai Bonavota che a loro volta hanno organizzato una sorta di incontro in una zona sul Monte Poro, in una masseria». «In quell’incontro Lopreiato aveva capito che se avesse detto subito la verità non sarebbe mai tornato a casa vivo e così alla domanda di Bonavota, disse di essersi sbagliato e che in realtà l’intimidazione era rivolta ai cugini Greco». Alle domande dell’avvocato Vecchio, Mantella spiega ancora: «In quell’occasione Cugliari chiama in disparte Domenico Bonavota per capire cosa fare, ma poi decisero di non ucciderlo anche perché c’erano due pastori come testimoni». Lopreiato verrà poi ucciso l’8 aprile del 2008, quattro anni dopo l’episodio dell’incontro sul Monte Poro: «Uno dei motivi della sua uccisione fu anche questo, Domenico Bonavota non gli aveva mica creduto. In quel periodo ero ai domiciliari ma anche io gli avevo dato la caccia per ucciderlo». (redazione@corrierecal.it)
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