LAMEZIA TERME L’Hotel dei Fiori è un guscio vuoto che accoglie (si fa per dire) chiunque svincoli dall’A2 a Falerna. Uno dei progetti turistici mai decollati nel medio Tirreno catanzarese. Con l’aggravante di una proprietà “scomoda”, per quanto occulta, stando alla Dda di Catanzaro. Gli atti dell’inchiesta Alibante contengono un filone di indagini iniziato oltre dieci anni fa, quando gli investigatori hanno passato al setaccio le idee turistiche nate nell’area che va da Lamezia a Nocera Terinese alla ricerca di possibili infiltrazioni mafiose nelle compagini societarie. È (anche) da questi spunti investigativi che si arriva alla presenza del presunto clan Bagalà nel settore. Ed è dai movimenti finanziari attorno al guscio vuoto di Falerna che i magistrati antimafia traggono gli elementi che legano il vecchio boss Carmelo ai colletti bianchi necessari per fare business. Alcuni li trova in famiglia (la figlia Maria Rita e suo marito Andrea Giunti, entrambi rinviati a giudizio), altri nella “Lamezia bene”.
Attraverso questi contatti, il boss prova a mettere in piedi «un’operazione finanziaria mirata a veicolare investimenti di capitali, di provenienza estera, nella società Calabria Turismo srl», sottoposta a un’interdittiva antimafia in seguito alla quale aveva perso i finanziamenti pubblici per il turismo. Al centro di un meccanismo che non sortirà, alla fine, alcun effetto, c’è anche un «sedicente imprenditore fiorentino» originario di Motta Santa Lucia «che, attraverso una serie di spregiudicate operazione finanziarie e la costituzione di società fittizie, funzionali agli scopi illeciti, si adopera per il reperimento di fondi cosiddetti “dormienti”». E procede «al trasferimento di somme di dubbia provenienze, da aziende creditizie estere verso una società nazionale cuscinetto, la Coin Group srl». Questa società viene rilevata nel 2017 da Vincenzo Dattilo, architetto lametino che costituisce, nella tentata operazione di finanziamento, il terzo lato del triangolo.
Dattilo non è quello che si direbbe un insospettabile. Gli investigatori lo definiscono «soggetto “bordeline” per il suo coinvolgimento in recenti e importanti operazioni di polizia antimafia (Perseo e Crisalide) condotte dalla Dda di Catanzaro nel territorio di Lamezia Terme. Dattilo, non raggiunto in quelle inchieste da provvedimenti giudiziari, «si segnalava quale professionista di riferimento per le principali cosche cittadine Giampà-Notarianni e Cerra-Torcasio-Gualtieri, con le quali aveva interlocuzioni qualificate e dirette con diversi esponenti di spicco». Un collaboratore di giustizia fa il suo nome addirittura nel 2009; nel 2011 viene coinvolto nell’inchiesta Artù della Dda di Reggio Calabria; nell’operazione Crisalide vengono «monitorati contatti diretti tra Dattilo e il reggente della cosca Torcasio Antonio Miceli, con il quale pianificava alcuni investimenti in favore della consorteria». Lo stesso Miceli avrebbe invitato l’architetto «anche al battesimo della figlia». E poi, da altre indagini, sarebbero emersi contatti con un collega reggino legato alla cosca di ‘ndrangheta dei Mammoliti-Rugolo di Castellace di Oppido Mamertina». Per gli investigatori, Vincenzo Dattilo è un «intermediario per conto della cosca Bagalà». Il suo scopo sarebbe quello di consentire al clan «di acquisire i fondi necessari per il completamento e l’apertura dell’Hotel dei Fiori».
Per farlo, secondo l’ipotesi dell’accusa, utilizzerebbe una società, la Coin Srl, inizialmente attiva nel settore petrolifero. In realtà si tratterebbe di una ditta “fantasma”, una cartiera («non essendo materialmente operativa né producendo alcun reddito») attraverso cui far transitare i fondi da una compagine sociale basata in Polonia ma di proprietà dell’imprenditore fiorentino che avrebbe stretto un patto con la famiglia Bagalà per finanziare l’attività. Il mezzo sarebbe stato, appunto, la Coin Group srl, che avrebbe dovuto cambiare la ragione sociale da petrolifera a immobiliare, aprire una sede secondaria a Lamezia Terme e attivare una serie di movimenti per giustificare «la piena attività della società che, in realtà, era una mera scatola vuota». Quei movimenti – secondo la ricostruzione degli inquirenti – conducono in Polonia, alla società Immofin Sp Zoo, nella disponibilità dell’imprenditore toscano originario di Motta Santa Lucia. Si parla di un grosso investimento che, di fatto, non si concretizzerà, provocando la rabbia del boss.
L’inchiesta Alibante
Il risentimento di Carmelo Bagalà per il socio “toscano”, che avrebbe dovuto aiutarlo a concretizzare l’affare dell’hotel è uno dei leitmotiv dell’informativa in cui i carabinieri riassumono le indagini patrimoniali. L’uomo, secondo il presunto boss, non avrebbe rispettato gli accordi pattuiti nel 2016 al momento del preliminare di vendita. Bagalà vorrebbe per lo meno un risarcimento per quei ritardi. A volte, però, si lascia andare a esternazioni più minacciose: «Se non manda i soldi lo scanno come un capretto». Dalle intercettazioni, gli inquirenti ricavano quelli che ritengono punti fermi dell’inchiesta: Calabria Turismo srl, per quanto non formalmente intestata ai Bagalà, è di fatto una società che loro controllano totalmente; il gruppo del commercialista dovrebbe acquistarla, e l’originario compromesso ne «prevedeva l’acquisizione per un importo di circa sei milioni di euro, comprendente la struttura alberghiera “Hotel dei Fiori”, valutata in circa un milione di euro».
L’accordo finisce per sfumare, tra un rinvio e l’altro; all’architetto non resta che spiegare in maniera esplicita al suo interlocutore quali rischi corra. «L’ultima cosa che farà nella propria vita Carmelo Bagalà, ok, è quella di ucciderti e dopodiché andare in galera per il resto dei suoi giorni! E lo farà, secondo me, con estrema felicità (…) che cazzo deve perdere questo, visto che ha perso a questo punto di credibilità verso le figlie perché si è fidato di te? L’unica risposta che ti può dare è quella che ti ammazza». Sono frasi che Dattilo pronuncia nei giorni in cui lavora per chiudere la Coin srl, visto che l’affare dell’Hotel dei Fiori è andato a monte. Da parte sua, invece, il boss è determinato, secondo gli inquirenti, «ad attentare alla vita» di colui che ritiene un truffatore. Un proposito così convincente da spingere il solito Dattilo a una semplificazione colorita quanto efficace: «Siamo a andati a sfruguliare il culo al padre eterno, capito?», dice al socio. (p.petrasso@corrierecal.it)
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