COSENZA C’è un mondo del lavoro in profonda trasformazione che per via dalle crisi economica scatenata dal Coronavirus ha visto modificare più rapidamente il modello organizzativo, a cui si somma la forte spinta impressa dai processi innovativi avviati nel sistema produttivo. Novità che anche, se marginalmente, stanno interessando la Calabria. Innovazione e nuovi paradigmi lavorativi che devono però fare i conti con una rete imprenditoriale ancora troppo fragile e caratterizzata da microimprese strutturate in ambito familiare e con modelli tradizionali.
E poi c’è un fantasma, che è tornato prepotentemente sulla scena dopo le riaperture progressive delle attività produttive a seguito delle misure meno restrittive post pandemia: le morti bianche e i sinistri sul lavoro (ne parliamo qui). Questo in sintesi il pensiero di Vincenzo Fortunato, professore associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Unical, nonché coordinatore del corso di Studi triennale e Magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni all’interno dell’Università della Calabria, con il quale il Corriere della Calabria ha fatto un excursus per comprendere le dinamiche del mondo del lavoro post pandemia.
Nel giorno del Primo Maggio, il Sociologo del lavoro segnala i tanti, troppi ritardi che accusa il sistema produttivo calabrese per recepire rapidamente le spinte che derivano dai processi in atto nel mondo del lavoro. E sul south working – che Fortunato definisce «fenomeno interessante» – sottolinea come sia troppo presto per poterne giudicare l’effetto in termini di ricadute occupazionali. Sulle morti bianche il docente dell’Unical, invita a «fare realmente i controlli nei territori e nelle aziende». Finora denuncia in Calabria «le norme in materia di sicurezza sul lavoro sono state completamente ignorate o aggirate e buona parte dell’occupazione non è regolare».
Professore, dopo l’emergenza pandemica è cambiato l’approccio del mondo del lavoro anche in Calabria?
«In generale, la pandemia ha avuto molteplici effetti sul mondo del lavoro, alcuni negativi, altri invece potenzialmente positivi. In particolare, se da una parte i due anni di crisi pandemica hanno determinato una contrazione dell’occupazione su tutto il territorio nazionale, soprattutto nei settori più fragili ed esposti alla crisi, dall’altra ci hanno abituato a modificare gli assetti organizzativi, le tradizionali pratiche di gestione e regolazione del lavoro e, non meno importante, a ridefinire le nostre aspettative e priorità. Aspetti come salute, benessere, formazione, flessibilità, conciliazione dei tempi tra vita privata e lavoro, più in generale l’enfasi sulla qualità del lavoro, sono diventati di crescente attualità e su questi temi si sta concentrando l’attenzione dei manager e dei dirigenti pubblici più lungimiranti. In altri termini, la pandemia ha accelerato alcune trasformazioni già in atto negli ultimi anni e sta rimodellando su basi nuove l’approccio al lavoro di molte persone, sia nel settore pubblico sia nel privato. Ciò vale un po’ dappertutto, anche nella nostra regione».
Il modello di lavoro a distanza secondo lei resterà un sistema che verrà utilizzato in futuro nel modo di lavorare anche nella regione?
«Èmolto probabile che anche con il ritorno alla “normalità” e, dal 1 luglio 2022 alle modalità ordinarie pre-pandemia (la legge n.81 del 2017) si cercherà di valorizzare quanto di buono è stato fatto e appreso nei due anni appena trascorsi grazie al lavoro a distanza o da remoto. Ciò vale soprattutto per le imprese, in particolare per quelle più innovative, agili e flessibili che riescono a coniugare le nuove modalità organizzative e il lavoro da remoto, con la chiara definizione degli obiettivi da raggiungere, delle modalità di controllo sui dipendenti, di un sistema moderno ed efficace di valutazione delle prestazioni e remunerazione dell’impegno. Al riguardo, sono numerose le indagini che evidenziano la stretta correlazione tra nuove modalità organizzative, flessibilità degli orari, qualità dell’ambiente di lavoro con il benessere dei dipendenti e quindi con le performance aziendali. Su questo fronte le opportunità di espansione possono essere molteplici. Più complesso è, invece, lo scenario per il lavoro pubblico, di per sé tradizionalmente rigido e meno incline a recepire le istanze di cambiamento indotte da un contesto in continua e rapida trasformazione. Infatti, negli ultimi mesi, a decorrere dal 15 ottobre 2021, è stato sancito il principio che la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa per i pubblici dipendenti è quella “in presenza”, fermo restando l’obbligo di garantire il rispetto delle misure sanitarie di prevenzione dei rischi di contagio. In estrema sintesi, attualmente ciascuna amministrazione può equilibrare il rapporto lavoro in presenza/lavoro agile secondo le modalità organizzative più congeniali alla propria situazione, tenendo conto dell’andamento dell’epidemia nel breve e nel medio periodo, e delle contingenze che possono riguardare i propri dipendenti. Ma è evidente che la tendenza a regime sarà quella di contenere il lavoro da remoto limitandolo a casi particolari».
Si è tanto parlato di south working soprattutto nella fase più acuta della pandemia. Con possibilità di ripopolare le aree interne. Una possibilità che potrebbe permettere alla Calabria di rivitalizzare le sue zone. Crede sia una strada percorribile?
«Quello del south working, o smart working visto dal Sud, è, a mio avviso, un fenomeno interessate, potenzialmente in crescita, ma i risultati restano ancora contenuti ed è difficile poterne valutare l’effetto in termini di ricadute occupazionali per le realtà del Mezzogiorno e per la nostra regione, oltre che sociali in senso più ampio. Ci sono ancora poche esperienze in corso e il loro esito appare incerto. Dopo una fase di grande interesse iniziale con studi e ricerche a cura della SVIMEZ (2020) insieme a Fondazione con il Sud e la creazione di un osservatorio sul fenomeno, c’è stato un progressivo calo dell’attenzione su questo tema e, ad oggi, gli studi e i dati disponibili sono ancora pochi e approssimativi. Uno dei potenziali vantaggi spesso citati è la possibilità di “ripopolare” le aree del Sud tradizionalmente soggette a fenomeni migratori. Le stime disponibili dimostrano che dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno oltre due milioni di residenti, la metà dei quali sono giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati; il 16% circa si sono trasferiti all’estero. Oltre 850 mila di loro non tornano più nel Mezzogiorno. A mio avviso, difficilmente ci sarà un cambiamento strutturale e una netta inversione di tendenza nella nostra società. Le variabili in gioco sono tante, complesse e riguardano i profondi divari non solo economici, ma anche civili e sociali (qualità dei servizi pubblici, sanità, istruzione, trasporti, infrastrutture digitali, opportunità di accesso al mercato del lavoro qualificato, rendimento delle istituzioni) che rendono significativamente più attraenti le regioni e le città del Centro e del Nord. Non escludo però che ci siano esperienze interessanti che potrebbero, nel lungo periodo, innescare un cambiamento ed un effetto di trascinamento, ancora oggi però difficilmente immaginabile su vasta scala».
Quali iniziative potrebbero essere attivate per facilitare in Calabria questo modello di lavoro?
«Ferma restando la necessità di un cambiamento culturale da parte dei datori di lavoro, oltre che dei lavoratori potenzialmente interessati, per favorire la diffusione del south working e renderlo più stabile in futuro ci sono alcuni strumenti di policy che potrebbero essere utilizzati. Innanzitutto, per venire incontro alle richieste ed alle esigenze delle aziende, prevedereincentivi di tipo fiscale o contributivo per le imprese del Centro e del Nord che attivano south working; riduzione dei contributi; credito di imposta una tantum per postazioni attivate; diminuzione dell’Irap al Sud a chi utilizza lavoratori in south working in percentuale sulle postazioni attivate. Altri possibili strumenti vanno nella direzione della creazione di spazi di co-working promossi dalle pubbliche amministrazioni, che siano prossimi alle infrastrutture di trasporto quali stazioni e aeroporti e dove sia possibile la condivisione di spazi per sviluppare relazioni, creatività e ridurre i costi fissi e ambientali».
La rapidità con cui sta cambiando la società e l’avvento dell’intelligenza artificiale, quali ripercussioni avrà sul modo di lavorare anche in Calabria?
«Tra le possibili conseguenze legate alla diffusione dell’Intelligenza Artificiale (AI) in ambito lavorativo c’è innanzitutto la necessità di acquisire le necessarie competenze richieste dai “nuovi lavori”, sempre più digitali e high-skilled. In particolare, la progressiva diffusione dell’Intelligenza Artificiale e, più in generale, le nuove tecnologie abilitanti che sono alla base della cosiddetta 4° rivoluzione industriale (big data, clouds, IoT, machine learning, realtà aumentata, ecc.) stanno ridisegnando la mappa delle competenze professionali ed i confini tra vecchi e nuovi lavori. Come evidenziano studi e ricerche recenti su questo tema (ad esempio i report sul futuro del lavoro del World Economic Forum), è molto probabile che l’AI e le nuove tecnologie disponibili avranno un effetto significativo e di sostituzione per i lavori a bassa qualificazione professionale, routinizzati e standardizzati. Allo stesso tempo, ci sarà una crescita di nuove occupazioni, più complesse, creative e professionalizzanti. Resta da capire quale sarà il saldo netto tra ciò che è destinato a scomparire e i nuovi lavori che verranno invece creati. Tutto ciò riporta in primo piano il ruolo della formazione e delle Università che dovranno essere al passo con i tempi adeguando l’offerta formativa alle nuove esigenze del mondo del lavoro. Per la Calabria, date le caratteristiche del tessuto produttivo e dell’occupazione locale, l’avvento dell’AI avrà almeno per i prossimi anni un impatto limitato. La nostra è un’economia “debole”, strutturalmente fragile nella sua articolazione interna. A ciò si deve aggiungere che gran parte delle imprese sono di micro e piccola dimensione. Inoltre, le imprese sono prevalentemente a carattere familiare e caratterizzate da una gestione piuttosto tradizionale: la maggior parte delle imprese opera in mercati molto ristretti (a livello locale o regionale) e la loro conduzione è esercitata essenzialmente da uno solo o, al massimo, da due o tre componenti della famiglia. Nel complesso, la struttura produttiva regionale rimane contraddistinta da un ruolo rilevante dei settori tradizionali a basso valore aggiunto».
Quali secondo lei potrebbero essere le professioni più ricercate in futuro anche dalle imprese calabresi?
«A mio avviso, le professioni più ricercate e che nel futuro riscuoteranno maggiore successo in termini occupazionali riguardano soprattutto l’ambito del digitale e dell’Information and Communication Technology (ICT); della gestione e analisi dei dati; ma anche nell’ambito organizzativo e del management delle risorse umane con la crescente richiesta di competenze trasversali (soft skills), ad esempio leadership, problem solving, capacità di lavorare in team, capacità di ascolto ed empatia. In un mondo sempre più digitale e tecnologicamente denso, a fare la differenza restano comunque e sempre le persone. Altre professioni sempre più richieste sono poi quelle direttamente collegate ai temi della sostenibilità energetica e ambientale, mentre la modernizzazione e il cambiamento strutturale della pubblica amministrazione italiana si accompagnano sempre di più alla disponibilità di giovani laureati e laureate che sappiano innovare, progettare, reperire finanziamenti, immaginare politiche per lo sviluppo, valutare e monitorare gli interventi, comunicare con i cittadini».
Nonostante le innovazioni che interessano il mondo del lavoro, purtroppo resta di strettissima attualità il tema della sicurezza. Troppi ancora gli incidenti sul posto di lavoro. Cosa è possibile fare per prevenire?
«In questo caso la risposta è semplice, ovvero intensificare, o meglio, fare realmente i controlli nei territori e nelle aziende, se necessario inasprendo le sanzioni in caso di evidenti irregolarità. Ci sono alcuni ambiti e settori in cui le norme in materia di sicurezza sul lavoro sono completamente ignorate o aggirate e buona parte dell’occupazione non è regolare. Penso, innanzitutto, ai settori dell’edilizia, dell’agricoltura, del commercio che si avvalgono di occupazione stagionale, molto spesso immigrata, costretta a lavorare e vivere in condizioni particolarmente disagiate. Allo stesso tempo occorre intervenire sulla prevenzione potenziando la formazione, non solo obbligatoria, per lavoratori e datori di lavoro, coinvolgendo le associazioni di categoria e sindacali. Infine, occorre potenziare gli organici a disposizione degli Uffici locali dell’Ispettorato del lavoro che, come gran parte degli enti pubblici e delle amministrazioni locali sono stati interessati negli ultimi anni da tagli lineari e dalla progressiva riduzione del personale addetto ai controlli». (r.desanto@corrierecal.it)
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