Ottomila gemme bianche, raccolte delicatamente per non sciuparle, e deposte con cautela nel sacco di lino o nella cesta di junco. Da mezzanotte a giorno fatto, i gelsomini erano timidi vampiri che si richiudevano nelle loro bare profumate per sfuggire a un sole, per loro, mortale. Ottomila fiori ci volevano per fare un chilo, e le donne, le campionesse, ne contavano fino a quarantamila per notte, per riportarsi a casa quelle poche lire buone a riempire le pance dei propri figli. Chi non le ha odorate quelle albe dense di ritorni profumati, non lo sa quanto eroismo ci sia stato nelle madri calabresi. Chi non li ha visti i trucchi, buoni a trasformare qualche cucchiaio di triste concentrato di pomodoro in sontuose e invitanti pastasciutte, non lo ha mai assaggiato il coraggio magico delle madri calabresi. Chi non c’è mai stato nella pancia del popolo calabrese, non può saperlo che ci abbiamo provato a essere migliori. E nessuno lo sa che nelle lotte più belle ci sono sempre state le nostre donne in prima fila. E anche se si è perso, senza di loro la deriva sarebbe stata totale. Che, se ancora una speranza c’è, lo si deve alla forza morale delle nostre madri, che anche durante le tempeste più buie hanno fatto di tutto per indirizzarci alla luce. Ci portavano a letto con ninna nanne e favole, figlie dei meravigliosi cunti aspromontani, contavano quarantamila fiori, e al mattino tornavano a cuntarci favole con quel po’ d’orzo o di latte che con la loro fatica riempiva le tazze. Nascondevano il sudore sotto il profumo del gelsomino e dopo dodici ore di lavoro, sorridenti, si mettevano a pulire e cucinare. Ecco, state attenti a parlare di bambini calabresi, se non conoscete la storia delle loro madri. E non date colpe alle madri calabresi, a volte i figli vengono sbagliati, nonostante il profumo del gelsomino.
*scrittore
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