ROMA Il primo maggio continua ad essere la “Festa dei lavoratori” per quanto «non ci sia nulla da festeggiare». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha incontrato ieri ad Udine i genitori e i compagni di scuola di una delle più giovani vittime dell’anno appena trascorso, Lorenzo Parelli, 18enne morto durante l’alternanza scuola-lavoro.
La sicurezza sul lavoro sarà il cuore della cerimonia al Quirinale. «È un diritto, una necessità – ha detto il Capo dello Stato – assicurarla un dovere inderogabile. Il lavoro è un diritto costituzionale e il suo valore non può essere associato al rischio, alla dimensione della morte».
Il conteggio in termini numerico-economici delle morti sul lavoro (che comprende anche gli infortuni e le malattie professionali) lo hanno tentato due docenti della Statale di Milano, Alessandro Boscati ordinario di Diritto del lavoro e Renato Ruffini, ordinario di Organizzazione aziendale, insieme al magistrato e capo dell’Ispettorato nazionale del Lavoro, Bruno Giordano. Lo studio arriva ad indicare per il nostro Paese una forchetta tra il 3 e il 6,3% del Pil. «I dati ufficiali – si legge nella ricerca – rappresentano una significativa sottostima, non solo per la fisiologica reticenza a denunciare gli eventi, ma anche per i filtri di classificazione che lasciano fuori, ad esempio, il lavoro nero, il lavoro minorile e quello occasionale».
I parametri per misurare l’effetto economico sono i costi diretti (spese sanitarie, assenze retribuite, perdita di reddito, risarcimento, assicurazioni, costi amministrativi e giudiziari, sussidi); i costi indiretti (riduzione capacità lavorativa, perdita di produzione, danni di immagine, pensionamenti anticipati e disabilità); i costi intangibili (dolore e sofferenza psicologica, cambiamento stile di vita, incapacità di accesso al mercato del lavoro, effetti negativi sui colleghi).
La distribuzione tra lavoratori, aziende e Stato del peso economico della insicurezza sul lavoro vede i primi al 20%, le seconde al 67% e il terzo al 13%.
«Festeggiare? Oggi non si può festeggiare», dice a Repubblica Emma Marrazzo, madre di un’altra giovanissima vittima del lavoro, Luana D’Orazio, morta lo scorso 3 maggio, a 22 anni, schiacciata dai rulli dell’orditoio di Montemurlo, in provincia di Prato. «I lavoratori dovrebbero scendere in piazza e urlare. Non è accettabile che una madre, un padre o un figlio escano al mattino senza sapere se rivedranno i propri cari la sera», aggiunge. Una morte, come molte altre, che ha spazzato via l’allegria colmata in parte dal piccolo Alessio, il figlio di Luana.
La giovane è diventata un simbolo di questo massacro quotidiano. Tanti erano stati gli appelli levatisi. «In questo anno ho raccontato di Luana nelle scuole: forse la sua storia ha risvegliato un po’ di attenzione sul tema. Ma ancora non basta, ogni giorno altre vittime. Dovrebbero mettere le telecamere nelle fabbriche. Così saprei con esattezza cos’è successo a mia figlia». Al futuro chiede che «nessun genitore debba più sopportare ciò che sto passando io. Che il lavoro sia davvero sicuro. Nulla mi ridarà mia figlia. Ma forse, se potessi dire che dopo la sua morte è cambiato qualcosa, soffrirei di meno».
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