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“Dambe so”, l’ostello sociale che accoglierà i braccianti della Piana di Gioia Tauro

L’iniziativa di Mediterranea Hope-Fcei tesa alla “deghettizzazione”. «Per loro non solo una casa, ma anche un lavoro pieno, né grigio né nero»

Pubblicato il: 03/05/2022 – 8:38
“Dambe so”, l’ostello sociale che accoglierà i braccianti della Piana di Gioia Tauro

ROSARNO “Dambe so” (“Casa della dignità”), termine dalla lingua bambara parlata in diverse zone dell’Africa. È questo il nome pensato per il progetto sperimentale di “deghettizzazione” dei braccianti che popolano gli insediamenti informali della Piana di Gioia Tauro da Mediterranean Hope – Fcei.
L’iniziativa della federazione delle chiese valdesi sostanzia nella riqualificazione di un vecchio albergo in disuso e ormai abbandonato, già rimesso in piedi per diventare un ostello solidale dove ospitare i braccianti. Dallo scorso mese di febbraio il centro ospita dieci braccianti provenienti dagli insediamenti informali e «si pone come modello di sperimentazione per un’alternativa alla logica dei campi di accoglienza, basata sul principio della sostenibilità e dell’economia circolare» spiega l’operatore Francesco Piobbichi. L’ostello sociale, che in maniera più strutturata partirà la prossima stagione di raccolta agrumicola, da settembre 2022, arriverà ad ospitare un massimo di 20 persone e sarà temporaneo, per la stagione della raccolta degli agrumi.

L’importanza dell’economia circolare

Come riporta Redattore Sociale, il progetto si fonda su un’idea di economia circolare. I lavoratori braccianti contribuiranno alle spese della struttura con una piccola quota. Parte dei costi sarà sostenuta dalla quota sociale proveniente dalla vendita delle arance della filiera di Etika, progetto che Mediterranean Hope insieme a SOS Rosarno sta costruendo in Italia ed in Europa. L’obiettivo è quello di arrivare a una rete di acquisto tra le chiese e il mondo associativo che garantisca un prezzo equo per chi lavora e contribuisce all’accoglienza dei lavoratori. Oltre a questo, nei mesi estivi, in cui gli appartamenti saranno vuoti, «collaboreremo con le associazioni non profit del territorio, impegnate tra l’altro anche nella promozione dei prodotti locali, che potranno usare la struttura per il turismo solidale» aggiunge Piobbichi. «Per i lavoratori braccianti che invece intenderanno risiedere stabilmente nel territorio della piana, ci sarà la possibilità di cercare case in affitto, sulla base di progetti personalizzati per l’inserimento abitativo». L’ostello si ispira alle prime forme delle società di mutuo soccorso e a modelli già sperimentati, come a Drosi, che fanno convivere la dimensione mutualistica, i diritti del lavoro e le forme basilari di welfare, insieme. Ma è anche un segnale per la politica: «Vogliamo dimostrare che è possibile ‘smontare’ i ghetti e uscire dalla logica dell’emergenza. L’ostello è un esempio in questa direzione – aggiunge l’operatore – La responsabilità sociale delle imprese permette inoltre una sostenibilità economica: il progetto non pesa sulla fiscalità generale dello Stato ma redistribuisce i profitti all’interno della filiera. Ma quello che più conta è ridare la dignità ai lavoratori. Lavoratori che, contribuendo alle spese, in un luogo non separato dal resto delle città, avranno lavoro e casa come elementi di integrazione».

«Un lavoro pieno, né grigio né nero»

I lavoratori sono assunti da Sos Rosarno, hanno cioè «un lavoro pieno, non nero né grigio. E questo è fondamentale perché il problema del lavoro grigio è una piaga qui in Calabria: le persone sono assunte spesso con un contratto ma a fine mese hanno meno giornate di quelle lavorate. Così non possono accedere ad alcuni sussidi come la disoccupazione. Noi vogliamo lavorare per costruire marchi che mettano insieme qualità del lavoro, produttore e consumatore. Creare cioè un’economia circolare e democratica».  Tra i primi ospiti dell’ostello un ragazzo del Gambia, che viveva in un ghetto da irregolare e uno del Senegal. «Ora hanno entrambi un lavoro regolare, uno di loro aveva un problema con l’alcol ma è da sei mesi che non tocca una bottiglia. L’altro ha appena preso la patente- spiega l’operatore -. Sono riusciti rimettersi in piedi e prendere di nuovo in mano la propria vita. Superare il modello dei ghetti si può. Se lo possiamo fare noi associazioni, lo può fare anche la politica».

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