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l’inchiesta

Più di trent’anni sotto il giogo del clan Mannolo. La storia del resort di Sellia Marina

Il “pizzo” si adegua ai cambi di gestione del villaggio turistico. Le «criticità territoriali» spiegate agli imprenditori del Nord, che si adeguano. I figli del boss si presentano come musicisti e …

Pubblicato il: 03/05/2022 – 7:07
Più di trent’anni sotto il giogo del clan Mannolo. La storia del resort di Sellia Marina

CROTONE Quella del villaggio Sirio di Sellia Marina è la storia di un’estorsione lunga più di trent’anni. La cosca di San Leonardo di Cutro ha messo le mani sulla struttura negli anni 80. All’epoca a gestire il resort era la società Mareneve e la guardiania – si legge nelle carte dell’inchiesta Jonica della Dda di Catanzaro – era il mezzo utilizzato per mantenere «il quieto vivere del villaggio» e l’«incolumità fisica degli affittuari». Le estorsioni finivano «nelle mani di Pepè Mannolo», defunto fratello del boss Alfonso, arrestato nell’operazione Malapianta. Per venti anni, dal 1981 al 2001, il vecchio capoclan di San Leonardo di Cutro si era occupato della faccenda. I villaggi, però, sono spesso soggetti a cambi di gestione. E la ‘ndrangheta è pronta a seguire cambi di proprietà per riposizionarsi. A Sellia Maria accade una prima volta nel 2002. Da quella data al 2006 compreso, la conduzione della struttura passa alla società “Blu Hotels Spa”. Alfonso Mannolo ricorda i patti al nuovo management. E l’imprenditore delegato a trattare con il boss esegue e informa “Blu Hotels” «dell’esistenza di criticità territoriali che dovevano essere ripianate versando quote estorsive pari a circa 5mila euro annui ai referenti a Pepè Mannolo». È quella che per i lavori sull’A3 si chiamava “tassa per la sicurezza”. Stessa logica e stesso risultato: i gruppi arrivati dal Nord si adeguano. È un dipendente di “Blu Hotels” l’incaricato a consegnare le somme agli ‘ndranghetisti.

Duemila euro al mese di estorsione dopo il 2008

La società, però, lascia presto le spiagge del Catanzarese e il villaggio viene gestito direttamente dall’imprenditore in contatto con i Mannolo che versa, «nel giro di due anni (tra il 2008 e il 2009, ndr), nelle mani di Giuseppe Mannolo, alias “Pepè”, la cospicua somma, in contanti, di 48 mila euro». Da questo momento, fino al 2013, il prezzo del «quieto vivere» viene fissato in 2mila euro al mese. Sono 33 anni praticamente ininterrotti di accordi per anestetizzare le «criticità ambientali», cioè gli appetiti mafiosi sul turismo.
Nel 2014 arriva una nuova società, la Saragest. E l’imprenditore che faceva da referente per la cosca di San Leonardo decide «di “disfarsi” delle incombenze dirette alla regolamentazione dei rapporti con la locale criminalità organizzata, delegando il pagamento direttamente alla società conduttrice e riducendo in misura proporzionale il canone di locazione». Quella tassa, in sostanza, viene istituzionalizzata al punto da entrare negli accordi di gestioni. Cambia anche il beneficiario dell’estorsione: con la morte di Pepè Mannolo, il trasferimento «del “diritto al percepimento dell’estorsione”» passa a Leonardo e Albano Mannolo. Cambia anche l’atteggiamento del nuovo proprietario. Che resiste alle pretese dei due e sollecita «anche un intervento di Alfonso Mannolo, il quale, al fine di tacitare le pretese dei nipoti, li autorizzava a dirottare le loro pretese estorsive sul villaggio Triton Villas sul quale ordinariamente non avrebbero avuto titolo».


L’inchiesta Jonica


I figli di Pepè Mannolo si fingono musicisti. Ma l’imprenditore non paga

È dalla voce dell’imprenditore che si rifiuta di pagare che gli inquirenti ottengono dettagli sul comportamento dei figli di Pepè Mannolo. «Dopo essere subentrato nella gestione del villaggio Sirio – spiega l’uomo –, nella primavera del 2014 all’inizio dei lavori per la sistemazione della struttura, si sono presentati due soggetti dicendo di essere musicisti di San Leonardo di Cutro e chiedevano di poter fare delle serate. Ricordo che vennero due volte a presentare la loro proposta nonostante il nostro diniego in quanto non avevamo necessità. Posso riferire che questi signori erano i figli di Pepè Mannolo, erano fratelli e ricordo che uno di loro si chiamavo Albano». Nella seconda “visita” al resort, oltre a insistere per le serate, i due «dissero che loro avevano sempre preso “lo stipendio” in quella struttura come anche loro padre che, presso il villaggio, svolgeva da tempo le funzioni di guardiano. In questa seconda occasione il loro atteggiamento era più nervoso, sembravano indispettiti dal nostro rifiuto. Io dissi loro chiaramente che se volevano lavorare da noi lo dovevano fare veramente, dovevano “faticare” e dovevano portare clienti. Noi avremmo pagato loro la provvigione, non avremmo accettato di pagare semplicemente uno stipendio a due persone che, peraltro, vivevano in Olanda e che a nostro parere non ci avrebbero effettivamente reso nessun servizio di intrattenimento». A quel punto, l’imprenditore si rivolse ad Alfonso Mannolo per «dirgli che i suoi nipoti non dovevano più venire a importunarci». Stando alle parole del pentito Dante Mannolo, la storia della richiesta estorsiva non sarebbe finita lì: «Non paga nessuno ed è soggetto di Mesoraca. So che i miei cugini Albano e Leonardo avevano preteso una mazzetta (…) ma al suo rifiuto, stante la vicinanza a “topolino” (soprannome del capo della cosca di Mesoraca, ndr) so che i miei cugini sono andati a Mesoraca a chiedere a Ferrazzo l’autorizzazione a provocare dei danneggiamenti al villaggio Sirio, so che Topolino li aveva anche autorizzati a procedere con i danneggiamenti ma i miei cugini non fecero poi nulla». Per il gip distrettuale si tratta di una tentata estorsione pluriaggravata. La «criticità territoriale», però, questa volta porta all’incriminazione dei due Mannolo. (ppp)

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