VIBO VALENTIA Prima la reazione «forte e netta nei confronti della scelta di Emanuele Mancuso di collaborare con la giustizia», poi – una volta compreso che «non c’è più nulla da fare» per convincerlo a ritrattare – il «distacco» totale. Il pentito, figlio del capobastone Pantaleone, viene allontanato dalla famiglia, «screditato e isolato, così da neutralizzare la sua credibilità e quindi le sue dichiarazioni». Nelle motivazioni della sentenza che ha portato a quattro condanne per le pressioni subite dal collaboratore di giustizia ci sono tutte le difficoltà che deve accettare chi decide di schierarsi dalla parte della magistratura. Ci sono, per cominciare, le minacce urlate dal fratello Giuseppe in carcere da una cella all’altra: «Stai parlando con Nicolino, se parli con lui, con me, ti ho visto, ti rinnego, lo sai la fine che fai». Con inviti espliciti: «Vedi ma ti ricogli sinnò fai a ‘fine di l’altri. Ma cu è ca ti dice ma parli? U’ cumpare Nicola». Il potere del clan Mancuso uscirebbe ridimensionato dalla scelta del rampollo, le pressioni si rendono necessarie. Pantaleone Mancuso, Giovannina Ortensia Del Vecchio e Rosaria Rita Del Vecchio – padre, madre e zia del pentito – si muovono nella logica di aiutare la cosca. Ed Emanuele Mancuso lo racconta a uno dei testi, il compagno di cella Antonio Cossidente: «Diceva che purtroppo, essendo una famiglia di ‘ndrangheta, radicata da centinaia di anni, dice “questi non lo accetteranno mai, che loro mi daranno filo da torcere, anche in seguito. Anche tra cinque anni, tra dieci anni, non mi molleranno. Finché non avranno avuto la loro soddisfazione nei miei confronti, anche per dare soddisfazione agli altri membri dei Mancuso. Perché lui diceva “tutto questo lo fa la mia famiglia, di farmi ritrattare, di minacciarmi, della bambina. Ma c’è un disegno perché, alla fine, dice, loro devono anche dimostrare ai fratelli, ai cugini, Diego, non so se Luigi, Francesco e compagnia bella, la famiglia Mancuso e gli affiliati, che loro sono stati capaci di bloccare la mia collaborazione. Quindi è anche una questione di onore, di soddisfazione».
In questo disegno la madre del collaboratore di giustizia assume un ruolo di primo piano. È, nelle valutazioni del giudice, «l’esecutrice materiale di numerose condotte volte ad indurre il figlio ad abbandonare la collaborazione». Lo stesso Emanuele Mancuso la descrive a Cossidente come una persona che «si sapeva muovere nell’ambito ‘ndranghetista, cioè era più malandrina del padre perché era la donna, comunque, che sapeva affrontare le vicende famigliari, le vicende di ‘ndrangheta. Cioè, era una donna… ha detto che si muoveva come voleva». Mancuso, oggi difeso dall’avvocato Antonia Nicolini, avrebbe raccontato a Cossidente che sua madre «andava a trovare mio padre latitante, sapeva come camuffarsi. Sapeva come muoversi con la zia, sapeva come muoversi col genero. Sapeva come muoversi con i contatti con gli altri membri dei Mancuso, con Luigi, con i fratelli… Diego… ». Cioè «non è una donna normale che, diciamo… così, è una donna che, come dire, ‘ndranghetisticamente parlando, era come una malandrina, cioè, come un uomo».
Uno dei mezzi utilizzati dalla famiglia per spingere Mancuso a ritrattare era la compagna Nensy Chimirri. Era lei a riportare al collaboratore il pensiero del clan, «come nel caso della proposta di trasferirsi in Spagna per aprire un bar con i soldi che gli avrebbero fornito i familiari o i nominativi degli avvocati da nominare per interrompere la collaborazione». «Ti ha trovato il migliore», dice in una conversazione del 19 luglio 2019, evidentemente intendendo che la scelta arrivi dal clan. Tuttavia, il giudice spiega che il reato di induzione a non rendere dichiarazioni vada inquadrato nella fattispecie tentata. Perché è vero che Emanuele Mancuso aveva interrotto il proprio percorso di collaborazione, ma lo aveva fatto non come «conseguenza diretta delle pressioni ricevute dai famigliari». Mancuso riferisce infatti che «in quel periodo stava male: “Mi è capitato di non avere nemmeno da mangiare a casa. Era una situazione veramente brutta. Poi mi mancavano dei farmaci”».
«Tossico, drogato, non mantieni la parola, non sei uomo». Così la madre di Emanuele Mancuso lo avrebbe offeso dopo aver scoperto che avrebbe continuato a collaborare con la giustizia. «Ricordo qualche frase brutta – spiega ancora il pentito – che mi ha ferito, tipo: rovinasti i figli di mamma, intendeva quei ragazzi arrestati in Giardini Segreti, che comunque sono tutti giovani. Quelli erano i discorsi». E c’è anche una lettera, ricevuta sempre da sua madre, con una frase in latino, «nello specifico “un rito satanico e io ho girato tutto il carcere, ho parlato con il prete, ho parlato, non so con quanta gente, nessuno riusciva a decifrarlo il significato, poi ho controllato bene, in latino, è un rito satanico, si chiama il rito di Sant’Antonio, e in buona sostanza il significato è: caccia via i demoni, caccia via i demoni, sei la mia croce, sei diventato il leone di Giuda. Il significato della lettera è questo, sei diventato il leone di Gratteri, secco. Non c’è bisogno nemmeno di interpretazione”». I genitori definiscono il figlio «pazzo, malato, bugiardo e drogato». Lo isolano con comportamenti «diretti a disprezzare e offendere il Mancuso Emanuele, che tuttavia non sono idonei ad essere qualificati quali violenza o minaccia». Nel processo di primo grado Pantaleone “l’ingegnere” Mancuso, Giovannina e Rosaria Rita del Vecchio sono stati condannati a un anno e 8 mesi; Giuseppe Mancuso a 5 anni e 6 mesi di reclusione. (p.petrasso@corrierecal.it)
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