CATANZARO «A Buckingham Palace prima hanno festeggiato la sconfitta di Nicola Gratteri. E subito dopo hanno brindato alla vittoria di Giovanni Melillo». La frase è attribuita dal Tempo a un magistrato che parteggiava, nella corsa ai vertici della Direzione nazionale antimafia, per il procuratore di Catanzaro. Non è una battuta calata dal nulla, semmai un’osservazione tanto sarcastica quanto basata su un fatto. «Ma è opportuno – prosegue il ragionamento riportato da Gianfranco Ferroni – che una poltrona così importante vada a una persona che in casa condivide la sua esistenza con un altissimo rappresentante di uno stato estero? Sì, perché Jill Morris, la signora Melillo, è stata per anni ambasciatore del Regno Unito in Italia, ed è un pezzo forte dell’amministrazione inglese». E qualcuno si spinge addirittura a chiedere «un intervento del Csm, del Parlamento e anche del Copasir per chiarire la materia». La Gran Bretagna è nazione amica ma resta centrale la questione di trasparenza per un ruolo delicatissimo, che riguarda la sicurezza dello Stato. Archiviato il risultato – ricordiamo: Melillo è passato alla prima votazione con 13 preferenze – e annotata l’indiscrezione restano sul campo una serie di domande.
La prima riguarda il Csm e le sue (non poche) traversie più o meno recenti. Un calo di autorevolezza si è abbattuto sulla magistratura dopo il caso Palamara. E soprattutto sul suo organo di autogoverno. Il “mercato” delle nomine, i legami non proprio disinteressati con la politica, il peso asfissiante delle correnti: esposta davanti all’opinione pubblica, la categoria non ne è uscita bene. I primi ad ammetterlo sono proprio i magistrati. Bene, il Csm aveva un’opportunità: quella di scegliere per un posto di assoluto prestigio un magistrato mai iscritto ad alcuna corrente, storicamente fuori dal coro, ascoltato da tutti (e che ascolta tutti) ma non inquadrabile dal punto di vista politico. Sarebbe stata una scelta di rottura rispetto ai canoni correntizi. In maniera del tutto legittima, il Csm ha scelto un candidato più che valido ma certamente molto più “di sistema” rispetto a Gratteri, anche visti i precedenti incarichi a stretto contatto con esponenti di governo. Insomma, l’appartenenza ha giocato un ruolo centrale. Esattamente com’è accaduto in quel passato dal quale la magistratura vuole affrancarsi. La scelta “di sistema” si è materializzata plasticamente davanti a chiunque abbia ascoltato la seduta del Plenum: quando i capi della Cassazione hanno trasformato l’ipotizzata astensione (che avrebbe portato al ballottaggio) in adesione alla candidatura di Melillo il quadro si è chiarito. Non è un caso che, nei giorni scorsi, proprio Luca Palamara – nel corso di uno dei dibattiti di presentazione del nuovo libro-intervista scritto da Alessandro Sallusti – abbia lanciato un monito chiarissimo. Rispondendo a una domanda sulle effettive possibilità, per Gratteri, di diventare capo della Dna, l’ex magistrato e capo dell’Anm ha spiegato: «La vedo difficile, perché Gratteri è fuori dalle correnti». E di Palamara si può dire di tutto (e spesso a ragione), ma di certo sa bene come funziona il sistema a Palazzo dei Marescialli.
Ci sono, forse, cose che Palazzo dei Marescialli non può permettersi. All’opinione pubblica la nomina a capo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo appare quasi come un buen retiro, un premio simbolico a magistrati dalla carriera specchiata. Accade perché – lo ha ricordato il Dubbio qualche giorno fa – gli uffici di via Giulia sono diventati cosa ben diversa da ciò che prevedeva il progetto esposto da Giovanni Falcone davanti al Csm nel 1992. Non il mezzo per garantire reale coordinamento e circolarità delle informazioni tra le Procure distrettuali. Non la piattaforma per garantire supporto logistico e collaborazione alle indagini. «Le informazioni in Dna arrivavano, sì, ma talvolta dai giornali», chiosa un magistrato. La Super Procura somiglia più a un centro studi o, peggio, a un altro tipo di piattaforma: quella buona per lanciare carriere. Eppure potrebbe fare molto, anche sul piano operativo. Domanda: cosa avrebbe significato per la Direzione nazionale antimafia avere un capo come Gratteri? Non si tratta di fare ipotesi vuote, ma di basarsi sui cari vecchi fatti che Paolo Pollichieni, compianto direttore del Corriere della Calabria – del quale oggi piangiamo la scomparsa nel terzo anniversario della sua morte –, amava definire «ostinati». E ostinatamente vale la pena ricordare che Nicola Gratteri una Procura distrettuale, quella di Catanzaro, l’ha davvero rivoltata come un calzino. Lo provano le indagini: vecchi figuri abituati a rastrellare informazioni di ogni tipo si lagnano al telefono per le blindature introdotte dal procuratore capo a partire dal 2016. Ha iniziato una battaglia, Gratteri, che a molti non piace. È diventato chiaro quando aveva manifestato interesse per la candidatura alla guida della Procura di Milano – apriti cielo: attacchi quotidiani, sopiti quando è stato chiaro che non avrebbe fatto domanda per quel posto direttivo. È stato chiarissimo anche qualche giorno fa, davanti a un Csm che, forse, non può permettersi che il “sistema Catanzaro” venga replicato su base nazionale, dall’organismo che coordina tutte le Procure distrettuali. Sarebbe una rivoluzione. Dunque meglio evitare, anche se il rischio – lo ha ricordato Nino Di Matteo – è quello isolare un magistrato esposto da più di trent’anni nella lotta alla mafia più potente al mondo. Messaggio pericolosissimo. I dubbi, davanti alla scelta, rimangono. Uno su tutti: forse non hanno brindato soltanto a Buckingham Palace. (redazione@corrierecal.it)
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