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Il boss legato alla ‘ndrangheta che imbarazza Zelensky

Accuse dalla Bulgaria: «Il presidente protegge il “re della cocaina” Banev». Il patto di “Brendo” con il clan Bellocco per portare la droga sulla rotta dei Balcani e i milioni trasferiti in Svizzera

Pubblicato il: 08/05/2022 – 6:53
di Pablo Petrasso
Il boss legato alla ‘ndrangheta che imbarazza Zelensky

LAMEZIA TERME «Volodymyr Zelensky ha concesso la cittadinanza ucraina a Brendo e quindi risulta un suo protettore». Frase riportata dall’Ansa e pronunciata mentre il fragore delle bombe scuote l’Ucraina; rumore di fondo del conflitto. Eppure la questione, rimbalzata dalla Bulgaria nei giorni scorsi, potrebbe aver creato qualche imbarazzo a Kiev (le cui priorità in questo momento sono decisamente – e comprensibilmente – altre) proprio nel giorno in cui una delegazione del governo di Sofia si è recata in visita nella capitale ucraina per portare solidarietà dopo l’aggressione decisa da Putin. È stato Rumen Petkov, leader del partito di centrosinistra “Abv”, a sollevarla, suggerendo di chiedere a Volodymyr Zelensky quale sia la sorte del boss della cocaina, il bulgaro Evelin Banev detto “Brendo”, arrestato in Ucraina il 6 settembre del 2021, e al quale è stata poi concessa la cittadinanza ucraina.

La gang italo-bulgara e i legami con la ‘ndrangheta

Brendo boss legato alla ‘ndrangheta che imbarazza Zelensky

“Brendo” popola le cronache europee da più di un decennio. Soprattutto quelle giudiziarie: era stato condannato, prima dell’arresto, per traffico di droga e riciclaggio di denaro in tre paesi: in Italia a 20 anni di reclusione, in Romania a 10 anni e in Bulgaria a 6 anni. Ed era a capo di una banda criminale bulgaro-italiana attiva nel traffico internazionale di droga. La sua organizzazione era stata sgominata a fine maggio del 2012 in Bulgaria, nell’ambito di una operazione attuata dai servizi speciali bulgari e italiani con l’assistenza dell’Interpol.
La gang era legata alla ‘ndrangheta e composta di oltre trenta persone delle quali 15 bulgari e 12 italiani. Grazie alle sue ramificazioni era capace di far entrare in Italia dal Sudamerica, prevalentemente via mare, una media di 40 tonnellate di cocaina all’anno. Una joint venture, quella con i clan calabresi, fermata dopo sette anni di indagini condotte prima dalla Dda di Torino e poi da quella di Milano. L’inchiesta fece emergere proprio il ruolo della mafia bulgara, protagonista dei traffici sulla stessa rotta, quella balcanica, che negli anni 80 serviva a trasportare in Europa l’eroina.

Le navi dall’America latina e la logistica curata dal clan Bellocco

Logistica consolidata, quella emersa nel corso delle investigazioni. Navi commerciali partivano dai porti dell’America latina, dirette verso le coste della Spagna e dell’isola portoghese di Madeira. Al largo i trafficanti organizzavano gli incontri con barche a vela d’altura per poi proseguire verso i porti turistici meno controllati, dove veniva sbarcata la cocaina. In sole due operazioni i carabinieri del Ros riuscirono a sequestrare 6 tonnellate. Il versante italiano dell’inchiesta portò a una costola piemontese della famiglia Bellocco di Rosarno, il cui compito era quello di curare i dettagli del trasporto in Europa. Emerse il ruolo di un padovano, addetto a reperire imbarcazioni e skipper: era in diretto contatto con Evelin Banev, considerato il capo dell’organizzazione. Imprenditore o capo mafia: i dubbi su “Brendo” ricalcano quelli che si avanzano su tanti presunti criminali dell’Est europa, sospesi tra economia legale e affari sporchi. Banev, secondo quanto raccontarono gli ufficiali del Ros, «aveva finanziato il noleggio delle imbarcazioni» e l’ingaggio degli equipaggi selezionati dal suo contatto dei Bellocco. Il “re della cocaina”, dopo le condanne, è riuscito a darsi alla macchia nel 2015. Arrestato a Kiev l’anno scorso, sempre secondo il racconto dell’Ansa, ha ottenuto la cittadinanza ucraina e la corte d’appello di Kiev gli ha concesso la libertà con l’argomentazione che secondo le leggi locali, essendo cittadino ucraino, non può essere estradato. Una ferita ancora aperta in Bulgaria. Petkov si chiede dove sia adesso Brendo, e come l’Ucraina possa chiedere di entrate nell’Unione europea con un tale precedente.

Le accuse in Svizzera: i fondi del narcotraffico trasferiti in Credit Suisse

Le accuse in Svizzera: i fondi del narcotraffico trasferiti in Credit Suisse

Banev è coinvolto anche in una storia giudiziaria in Svizzera. Non tra gli imputati: sul banco degli accusati siedono due banchieri, due cittadini bulgari e il Credit Suisse per il presunto riciclaggio di 146 milioni di franchi riconducibili all’organizzazione criminale guidata dal 57enne. Che, negli anni trascorsi in carcere prima di scomparire, ha trovato il modo di scrivere un romanzo autobigrafico, “Fisso l’anima della Bulgaria” ed è stato costantemente al centro dell’attenzione pubblica nel suo Paese, anche per i suoi chiacchierati rapporti con i servizi segreti.
Nel corso degli anni, secondo l’ipotesi d’accusa, “Brendo” avrebbe trasferito in Svizzera i lauti proventi del narcotraffico gestito assieme alle cosche di ‘ndrangheta. Un’ex impiegata di Credit Suisse – racconta “Milano Finanza” – è accusata di aver portato con sé almeno un cliente bulgaro socio di Banev quando è entrata a far parte di Credit Suisse nel 2004. L’uomo, in seguito ucciso a colpi di arma da fuoco mentre usciva da un ristorante con la moglie a Sofia nel 2005, aveva iniziato a riempire in diverse cassette di sicurezza della banca valigette piene di banconote di piccolo taglio provenienti dal traffico di stupefacenti guidato da Banev. L’impiegata, secondo l’accusa, avrebbe «ostacolato in modo duraturo e ripetuto l’identificazione dell’origine, la scoperta e la confisca di fondi di origine criminale e ha così contribuito a nascondere l’origine illecita degli averi dell’organizzazione grazie all’esecuzione di operazioni finanziarie per un importo pari a oltre 140 milioni di franchi svizzeri». I pubblici ministeri chiedono a Credit Suisse circa 42,4 milioni di franchi (40,1 milioni di euro) a titolo di risarcimento per la mancata applicazione delle misure di sicurezza. La banca considera «infondate» le accuse e ritiene «che la sua ex dipendente sia innocente». (p.petrasso@corrierecal.it)

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