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La destra perduta e l’operazione Gramsci

La destra italiana, comprendendo in questo campo tutta l’area originaria formatasi intorno al polo delle libertà, ha governato per quasi 10 anni, direttamente, il Paese, prima di decomporsi e rico…

Pubblicato il: 11/05/2022 – 9:32
di Mario Campanella*
La destra perduta e l’operazione Gramsci

La destra italiana, comprendendo in questo campo tutta l’area originaria formatasi intorno al polo delle libertà, ha governato per quasi 10 anni, direttamente, il Paese, prima di decomporsi e ricomporsi in tanti segmenti e ricollocarsi in nuovi partiti. È indubbio che il merito di questa polarizzazione univoca, poi caratterizzata da varie trasformazioni, sia stato di Silvio Berlusconi, per anni capace di orientare e legittimare un quadro metapolitico che nella prima repubblica era congelato. Se guardassimo alle opportunità avute, dal 94 ad oggi, e alla galassia editoriale del cavaliere, dovremmo sorprenderci dell’assenza di una pubblicistica identificabile con il centrodestra. Pochissimi intellettuali, poche pubblicazioni, un’assenza di tesi culturale convincente sulla quale costruire la fertilità di idee e tradizioni mai del tutto valorizzate. Il problema originale della destra italiana è stata la sua configurazione in un partito di nicchia che aveva radici tutt’altro che liberiste ma francamente indirizzate dal post fascismo, dal corporativismo e, in sintesi, dalla dottrina sociale di Salò. Un partito che raccoglieva anche nostalgici ma che non aveva nessuna identificazione con la destra liberista e liberale. I tentativi successivi di rimodernizzare la “destra” sono falliti per l’assenza di una radice di base che desse voce a posizioni terze ed autorevoli, di fiancheggiamento strategico all’opzione politica. In pratica, il disegno gramsciano (antropologicamente rivisto da un grande calabrese, Luigi Maria Lombardi Satriani, sempre nell’ambito della sinistra) che il fascismo stesso aveva incorporato in un’officina straordinaria di talenti e di persone che avrebbero occupato, da Fanfani a Moro sino a Dario Fo, un peso rilevante nel successivo dopoguerra. Sganciando il fascismo da quella che si definisce area moderata si identifica difficilmente una politica culturale comune: non c’è un’elites letteraria vigente, al centro o in periferia, né una classe amministrativa di profilo che sia collocabile in una formazione alternativa a quella progressista. Tutto si riduce a una cooptazione perenne o all’affermazione di un moderatismo che non è la sintesi nemmeno apparente della coalizione. Basterebbe guardare alle Università ( e alla triade che unisce simbioticamente informazione, giustizia e pubblicistica) per capire come vi sia un problema aperto di compensazione culturale che influisce qualitativamente sulla società italiana. Società e non comunità, giacché negli anni, e non per ragioni diverse dall’inedia, si è faticato a costruire un modello etimologico alternativo a quello imperante dal dopoguerra. Il problema di base è forse capire quale stratificazione voglia intercettare il centrodestra : se la fusione tra identità e tradizione, il liberalismo economico, il patriottismo sovranista o se possa trovare una sintesi fra le varie posizioni ponendosi finalmente come riferimento attendibile per una vasta gamma di pensiero comune. Quando Fini propose il Risorgimento come bussola della destra liberale si riferiva a un mondo che non aveva alcun rapporto con le pulsioni nazionali e, del resto, c’era un partito di governo, il Pli, che raccoglieva l’eredità giolittiana e si attestava mediamente al 2%. L’equivoco tra liberalismo e liberismo ha seppellito letteralmente una vasta fetta di intellettualismo avanguardistico, da Franco Cardini, a Parlato, da Tarchi a Veneziani, da Pera a Buttafuoco: gente che vive in contesti antitetici a quelli dell’organizzazione di base e complessiva chiamata centrodestra. Non sappiamo cosa accadrà da qui a 10 mesi, se l’autonomia democratica consentirà di uscire dalla palude dell’emergenza ma certo è che urge una riflessione accademica ed autorevole, severa, per ricondurre il dibattito verso un indirizzo preciso. Rivisitare Gramsci è un comportamento estetico, oltre che potenzialmente strategico , non per innalzare un contropotere culturale in Italia ma per ridefinirsi. In un celebre saggio su Yukio Mishima (la cui grandezza italiana, pur essendo un autore molto amato dalla destra, si deve a Feltrinelli) si preconizzava negli anni 70 un’Europa libera dal duopolio culturale social-capitalistico.Quella strada, in 28 anni, non è mai stata percorsa, innanzitutto come metodologia didattica prima che politica, dal centrodestra. Senza una tesi condivisa sul piano ideologico (seppure in un quadro chiaramente post-ideologico) il rischio più concreto è la perpetuazione di quanto già fatto. Quale nazione, quale continente, quale mondo si voglia disegnare , ancorandolo ai valori condivisi dell’Occidente,richiede uno sforzo complessivo che finora non è stato fatto. Lasciare una traccia di governo significa ambire ad avere una funzione pedagogica che non prescinda né dall’attualità, né da ciò che è un bagaglio culturale potenzialmente immenso .Altrimenti sarà solo ricapitolazione.
* Giornalista

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