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‘Ndrangheta, la locale di Roma dei cugini “complementari”. «Dobbiamo essere come l’acqua della fontana»

Nell’ordinanza del gip i riferimenti dei due boss Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro per la gestione degli affari “in proprio”, coinvolgendo i calabresi che erano a Roma da tanti anni ed essere «inclu…

Pubblicato il: 11/05/2022 – 6:59
di Giorgio Curcio
‘Ndrangheta, la locale di Roma dei cugini “complementari”. «Dobbiamo essere come l’acqua della fontana»

ROMA Quella costituita dai Carzo a Roma è, secondo la Dda capitolina, a tutti gli effetti una locale di ‘ndrangheta, dotata però di una propria autonomia operativa. Ci sono numerose conversazioni captate dagli inquirenti in cui proprio il presunto boss, Antonio Carzo, fa riferimento ad una “sua squadra” attiva a Roma, riportate nell’ordinanza del gip, Gaspare Sturzo, e che ha disposto l’arresto di 43 persone tra carcere e domiciliari nell’operazione “Propaggine”.  

«Io ho bisogno di cristiani seri»

È proprio il presunto boss a rivendicare in più di una circostanza la sua autonomia territoriale perché, spiega in un dialogo captato dagli inquirenti, «io ho bisogno di cristiani seri». Il riferimento in questo caso è alla circostanza in cui dalla cosca di riferimento, e quindi dalla Calabria, gli avevano “sponsorizzato” soggetti a lui non graditi. In particolare, racconta «a me l’altra volta sono arrivati cristiani da sotto» (dalla Calabria ndr) che avevano chiesto se lui avesse «…contatti con Tizio o no?», sostanzialmente – secondo gli inquirenti – sollecitando l’ingresso di alcuni soggetti nella squadra di Carzo. Quest’ultimo, come riporta il gip nell’ordinanza, si era però irrigidito, non accettando ingerenze esterne, chiedendosi: «ma come mai non sono venuti loro?» ma aveva osservato: «nessuno che pensi che devono venire con me perché li mandano gli altri…da me devono venire perché vogliono noi altri… perché vogliono loro, non perché li mandano quegli altri (dalla Calabria)…perché se pensano che li mandano quegli altri io me ne fotto di loro…», rivendicando evidentemente una certa autonomia nella scelta della squadra: «…io sono io…non mi interessa nulla di nessuno…io sono io…mai nessuno che pensi che io….mi devono comandare gli altri».

«Noi ci facciamo i cazzi nostri»

Appare chiaro agli inquirenti, dunque, come Antonio Carzo volesse, nonostante la regola di affiliazione alla struttura verticistica calabrese, definire un proprio percorso autonomo a Roma, scegliendo uomini di sua fiducia, senza attardarsi nel prendere solo persone segnalate dal territorio di origine, soprattutto ove queste non fossero ritenute affidabili. «Noi intanto guardate come siamo combinati…noi siamo qua guardate quanto siamo belli qua…noi abbiamo una propaggine di là sotto», si vanta Carzo, nel senso che, secondo il pm, nella Capitale avevano creato un’articolazione territoriale della cosca, ma precisa Carzo in più di una circostanza «noi ci facciamo i cazzi nostri». Una lettura complessiva di questo passaggio del dialogo consente di comprendere meglio concetto affermato da Antonio Carzo, il quale faceva un esplicito parallelo con ciò che accadeva ad Ostia: «…come noi qua o là…come gli Spada si fanno i cazzi loro, o no?». È il 6 ottobre del 2017 quando all’interno dell’abitazione di Antonio Carzo a Roma, gli inquirenti intercettano una conversazione con Teresa Frisina, lo stesso Antonio Carzo e i figli Vincenzo e Domenico ai quali si uniranno poco dopo anche Francesco Greco e Francesco Condina. Altro elemento di rilievo nella stessa conversazione è poi il riferimento che fa Greco in una domanda posta ad Antonio Carzo, chiedendogli se avesse terminato con la detenzione. Carzo spiega poi di essere ancora in libertà vigilata ma della quale aveva chiesto la revoca e, qualora gliel’avessero accordata, sarebbe potuto scendere in Calabria. «(…) là sotto (in Calabria ndr) gira sempre il nome mio (…) ma faccio io…ma come…ma se io mi sto facendo i fatti miei, se voi là sotto parlate di me allora significa che io…se arriva che mi scatta un’associazione…eh un’altra volta…».

I due cugini complementari

Quelli tratteggiati dai pm sono due profili importanti, ma soprattutto complementari e dunque funzionali alla gestione di una locale di ‘ndrangheta in una città storicamente complessa a livello criminale. Da una parte c’è Vincenzo Alvaro, dotato di un “talento naturale” per gli investimenti, circostanza di fondamentale importanza su un territorio come quello della capitale, dove vi erano innumerevoli possibilità di rilevare attività commerciali riciclando i proventi di altre attività illecite del sodalizio. Dall’altra c’è Antonio Carzo, leader naturale e capace di aggregare i numerosi ‘ndranghetisti sparsi per Roma e che fino a quel momento non avevano avuto un locale di riferimento nella capitale. Per gli inquirenti Carzo era ed è un uomo ambizioso, dotato di naturale carisma e di una autorevolezza che gli derivava dalla sua appartenenza ad una storica famiglia di ‘ndrangheta e da una lunga detenzione, in parte scontata in regime di carcere duro.

Essere inclusivi e non divisivi

Altri riferimenti di Antonio Carzo all’autorizzazione della “casa madre” sono stati captati in altre conversazioni successive, come quella del 15 aprile del 2018. In quell’occasione a casa di Carzo arriva Francesco Greco, trattenendosi per diverse ore. La prima parte avviene in balcone e gli inquirenti non riescono a capire gran ché. Tutto cambia quando i due rientrano in casa. Dallo scambio di battute emerge in modo inequivocabile che Antonio Carzo, utilizzando il suo carisma e la sua credibilità all’interno della ‘ndrangheta, aveva ricevuto l’incarico di costituire il locale di Roma, affiancando il cugino Vincenzo Alvaro. Quest’ultimo, infatti, nonostante fosse chiaramente appartenente alla ‘ndrangheta e pur essendo stanziato a Roma dal 2001, fino a quel momento non aveva ottenuto l’autorizzazione a costituire il locale di Roma, anche perché era ritenuto una “mente commerciale”, cioè era dedito prevalentemente agli investimenti, realizzati avviando attività commerciali intestati in modo fittizio. E così per portare a compimento la missione affidatagli e coinvolgere il maggior numero di soggetti, il presunto boss Antonio Carzo aveva fatto affidamento soprattutto sul cugino Vincenzo Alvaro, il quale era a Roma dal 2001 «Io pare che non gliel’ho detto a mio cugino? Si là è una vita che conosce tutti questi». Per Antonio Carzo poi bisognava dimostrare rispetto e trasparenza, dovevano essere «come l’acqua della fontana» nei confronti di quei calabresi che erano residenti a Roma da diversi anni e che appartenevano a storiche famiglie di ‘ndrangheta, coinvolgendoli in qualche modo nel nuovo locale, sforzandosi cioè di essere inclusivi e non divisivi. (redazione@corrierecal.it)

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