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‘Ndrangheta a Roma, lo spaccio di coca e il controllo della piazza “con i ferri”. «Tranquillo che ci sono i calabresi»

Dalle carte firmate dal gip, la ricostruzione del piano ideato dal boss Antonio Carzo e i figli: dalla cocaina a 100 euro al grammo per i chirurghi alla conquista di Boccea

Pubblicato il: 15/05/2022 – 19:02
di Giorgio Curcio
‘Ndrangheta a Roma, lo spaccio di coca e il controllo della piazza “con i ferri”. «Tranquillo che ci sono i calabresi»

ROMA Piazzare poco più di quattro chili di droga prendendo, con le armi, la gestione di una piazza di spaccio a Roma attraverso un gruppo di ragazzi che avrebbero agito da pusher su strada. Questo il piano ideato dal boss del locale di ‘ndrangheta, Antonio Carzo, insieme al figlio Domenico, ma anche Francesco Calò e Francesco Greco. A ricostruirne le fasi cruciali sono gli inquirenti che, nel frattempo, stavano monitorando tutti i movimenti della cosca romana guidata proprio da Carzo insieme a Vincenzo Alvaro, tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018. È sono un proposito iniziale, un progetto in divenire che diventerà nel corso dei mesi e delle settimane il vero obiettivo dei Carzo, dichiarato peraltro apertamente nel corso di un dialogo intercettato: inserirsi sul mercato degli stupefacenti con un prezzo molto competitivo, per poi guadagnare in un secondo momento. E in questo senso il figlio, Vincenzo, aveva riferito al padre di aver già avviato un discorso di questo tipo con alcuni ragazzi, spiegando che loro «erano calabresi», che il padre «era stato in carcere 15 anni» e che «non temevano nessuno, neanche un gruppo di napoletani operanti nella zona, ed erano disposti a conquistare la piazza con le armi». «(…) solo che ora si deve vedere (…) deve essere uno e uno che sia originale…quello là … se si deve fare si deve fare per 4 kili…». Una volta individuato il gruppo di giovani, Antonio Carzo e i due figli – secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – iniziano da subito a valutare la possibilità di procurarsi subito 4 kg di sostanza stupefacente.

«Ci vogliono i ferri!»

Da diverse affermazioni, captate ancora dagli inquirenti, emerge nuovamente e chiaramente l’intenzione di conquistare la piazza con metodo mafioso, utilizzando le armi e facendo pesare le proprie origini calabresi. «(…) perché ora come dicono che qua… dice… ci sono i calabresi (…) perché poi come ci hanno guardato loro, ci hanno guardato tutti questi qua (…) certo ora quando gira la voce che qua, qua, qua tranquillo ci sono i calabresi», paventando anche l’uso delle armi: «(…) ci vogliono due buoni che devono fare e uno là fuori che vi aiutano a sbarrare (…) si può fare tutto…ci vogliono i ferri, ci vuole un’altra casa e uno che la stabilisca…perché noi qua non possiamo stare fermi…perché qua, appena arrivano i calabresi, se ne vanno via» «(…) i ferri ci vogliono per farglieli vedere quando loro vedono il ferro poi…». Il progetto di creare, in quella zona, una grossa piazza di spaccio verrà affrontato a febbraio 2018, a casa di Giulio Versace, anche lui tra gli arrestati. Nel corso della serata, mentre i presenti stavano assistendo al film “Gomorra”, Antonio Carzo paragonava la piazza di spaccio di Scampia a quella esistente nella zona San Basilio di Roma. Poi, riferendosi alla zona nella quale abitavano, diceva che avrebbero potuto anche loro «avviare un proficuo traffico di droga», organizzato sulla falsa riga «delle piazze di spaccio napoletane» tenuto conto che il quartiere permetteva uno stretto controllo degli accessi delle autovetture, prevenendo l’eventuale arrivo delle forze di polizia. «(…) questa era una bella zona…da dove siamo entrati…solo da lì si entra…qua se siamo una decina delle nostre famiglie che organizziamo…».

La coca per i “festini” dei medici

È ancora Antonio Carzo che, intercettato, parlava poi della possibilità di acquistare ingenti quantitativi di sostanza stupefacente, ma erano alla ricerca di persone a cui cederla sul territorio della Capitale. In questo caso l’interlocutore è un medico di origini calabresi, Francesco Maria Cutrupi – non indagato in questa operazione – ma puntualmente in contatto con la locale di ‘ndrangheta a Roma e al quale proprio Carzo chiedeva se ci fossero medici che facessero uso di sostanza stupefacente. «Uuhhh! – risponde il medico – tutti soprattutto i chirurghi» «i chirurghi appena entrano, quello è. O si prendono mezza bottiglia e se la bevono…non è che come una volta…». Poi concordano l’eventuale affare. «Quanto gli devo dire? – chiede il medico – che io non ne ho idea» «A seconda di quanto ne vuole – risponde il boss – perché sai, io non la tocco…». Poi Antonio Carzo – si legge nell’ordinanza del gip – chiariva che si trattava quindi di sostanza pura, precisando che comunque lui cedeva quantitativi non inferiori a 50 grammi e, in quel caso, il prezzo era superiore a 100 euro al grammo mentre per quantitativi da 200 grammi in su il prezzo era molto più conveniente, cioè 70 al grammo. «(…) quando vogliono fare festini, festette» «quanta ne vogliono…basta che me lo dicono due o tre giorni prima e ce la facciamo trovare».

La piazza di Boccea e il caso Kuciak  

A Roma ben presto si sparge la voce che Antonio Carzo fosse ormai inserito nel settore delle sostanze stupefacenti e che fosse anche in grado anche di procurarsi ingenti quantitativi di cocaina. In una serie di intercettazioni, infatti, sono diversi gli affari proposti. Come quello di Gianluca Moschella, soggetto originario di Melito Porto Salvo, non indagato in questa operazione. L’obiettivo era quello di rifornire periodicamente un gruppo di spacciatori operanti nella zona nord della capitale (Boccea-Cornelia-Montespaccato), i quali avrebbero acquistato dai dieci ai quindici chili di sostanza stupefacente alla settimana. Da anni, infatti, Moschella insieme ad un socio rifornivano queste persone e sapevano che erano serie ed affidabili, ma nell’ultimo periodo, a causa di alcune problematiche giudiziarie, aveva perso i contatti con i suoi fornitori e per tale ragione chiedeva l’intervento del boss Antonio Carzo. Una storia però che si incrocia con un noto caso di cronaca internazionale. Già perché l’arresto di cui riferisce Moschella a Carzo è quello di suo cognato, Mario Rodà, e i suoi fratelli perché, con altri soggetti, erano ritenuti responsabili dell’omicidio del giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kusnirova, trovati senza vita il 25 febbraio nella loro casa vicino Bratislava, uccisi a colpi di pistola. I sette erano stati rimessi in libertà dopo 48 ore per mancanza di prove, ma Moschella era comunque preoccupato perché le attenzioni investigative indirizzate sulla famiglia del cognato avevano interrotto un proficuo rapporto di collaborazione instaurato nel settore degli stupefacenti.  «Comunque vi ho pensato per un fatto, abbiamo un canale che ora è stato bloccato, però è una cosa urgente» dirà Moschella a Carzo «(…) giustamente però è tutta una questione poi di prezzo… come gliela possiamo fare… però se così è, è una cosa buona veramente per tutti perché pure che facciamo un punto ciascuno, questi sono ragazzi che hanno i soldi, questi in contanti, subito così 10, 12, 15 chili in una botta…a settimana…». Un affare importante sul quale bisognava subito mettere le mani perché questi erano «ragazzi giovani in gamba che già si sono presi Boccea, tutto. Un bel quartiere e hanno un bel giro». Carzo temporeggia anche perché l’operazione “Santa Fe’” aveva avuto i suoi effetti negativi sul mercato della droga, e poi perché ormai era un sorvegliato di polizia: «Purtroppo sono inguaiato che se mi fossi potuto muovere per essere là sotto, se mi fossi potuto muovere da là sotto me ne andavo in questa Olanda o in questa Spagna».

La ‘mbasciata tramite Alvaro

Siamo a marzo 2018. Due mesi dopo, l’8 maggio, gli inquirenti rintracciano un altro incontro tra Antonio Carzo e Francesco Malvasi, il primo socio di Moschella. «Volevo chiedere se forse c’erano novità?». Il riferimento è ovviamente alla fornitura di stupefacenti di cui avevano parlato due mesi prima. «La prossima settimana dovrei avere novità buone» gli risponde Carzo, assicurando che la sostanza stupefacente era a Roma anche non era subito disponibile. «Me la fanno a me a 28, ora, perché ora come ora è un po’… c’è poca…».  «Per voi va bene due punti di che noi ci possiamo mettere pure solvente?» propone allora Malvasi, «C’è la possibilità che mangino tutti?» chiede, ricevendo la risposta affermativa di Antonio Carzo, rispondendo che già il giorno dopo avrebbe inviato una ‘mbasciata ad una terza persona. Il giorno dopo, come ricostruito dagli inquirenti, Carzo incontra in un supermercato di Roma l’altro boss, il socio Vincenzo Alvaro con il quale parla almeno mezzora. Per gli inquirenti, così come riportato poi nell’ordinanza del gip, era evidente che il soggetto coinvolto nel traffico di stupefacenti era un altro componente del locale di Roma, ma non individuato con certezza e al quale proprio Carzo avrebbe dovuto inviare una ‘mbasciata tramite Alvaro. (redazione@corrierecal.it)

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