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«Faggi in primavera. L’infinito della storia e lo scontro delle civiltà»

Cammino lungo un sentiero che mi è familiare, fra le “montagne di casa”. Vecchi castagni abbandonati, un tempo dispensatori di frutti preziosi, s’alternano a cedui trasformati in deserti dai tagli…

Pubblicato il: 17/05/2022 – 10:27
di francesco bevilacqua*
«Faggi in primavera. L’infinito della storia e lo scontro delle civiltà»

Cammino lungo un sentiero che mi è familiare, fra le “montagne di casa”. Vecchi castagni abbandonati, un tempo dispensatori di frutti preziosi, s’alternano a cedui trasformati in deserti dai tagli. L’erica espone i suoi minuscoli fiori bianchi. Le prime orchidee occhieggiano nell’erba. Provo la mia caviglia necrotica, che mi ha prodotto una crisi di astinenza da cammino di quasi due mesi. Da tempo vivo con un costante senso d’apprensione. No, non è per la salute, e nemmeno per le condizioni delle mie “montagne di casa”. È per la nostra “casa comune”, piuttosto, per l’Europa, per le vite di tutti noi, strette nella contesa mortale fra superpotenze.
Qualcosa si è inceppato nel precario equilibrio della forza nel quale siamo vissuti per decenni dopo la seconda guerra mondiale. La caduta del comunismo ha prodotto il caos: l’Urss ed il suo impero si sono frantumati; il capitalismo finanziario, il neoliberismo, la globalizzazione sono dilagati; l’informatica e la rete hanno cambiato le nostre vite; nuovi potentati economici (statuali e non) sono emersi; il neocolonialismo ha ripreso possesso del Terzo Mondo. Per anni ci siamo illusi che l’alta finanza potesse tenere unito il pianeta, cancellando sistemi esistenziali, orgogli nazionali, identità culturali. Poi qualcosa s’è inceppato. I “vincitori”, gli Usa, hanno preteso di applicare il loro sistema valoriale ovunque: un “universalismo” simile a quello cristiano, piuttosto che un “imperialismo”. Ma ecco, invece, il terrorismo islamico prima, le guerre d’esportazione della democrazia poi, ed infine gli esodi dei migranti dai sud del mondo. Dimostrazioni, queste, che non si è affatto verificata “La fine della storia” incautamente sentenziata dal politologo statunitense Francis Fukuyama in un libro del 1992. E che, invece, lo “scontro delle civiltà” preconizzato da un altro politologo statunitense, Samuel P. Huntington (1927/2008) in un libro del 1996, ha assunto altre, inquietanti sembianze. In sintesi, mentre Fukuyama sosteneva che dopo la fine del comunismo il mondo sarebbe stato governato dalla globalizzazione sotto la guida del modello unico delle liberal-democrazie occidentali, Huntington, al contrario, previde che la fine del bipolarismo Usa-Urss avrebbe liberato nuovi, inediti conflitti fra diversi modi di vedere il mondo.
Giungiamo alla stradina di crinale, fra Monte Castelluzzo e Monte Condrò. I tagli dei cedui di castagno scoprono vedute da sogno verso la Conca di Decollatura e la Sila. Entriamo nel gioiello cangiante della faggeta: rubino in autunno, topazio d’inverno, smeraldo in questo periodo. La caviglia sembra resistere: la cascata di neurotrasmettitori azionata dal ritorno in montagna ricarica il mio sistema immunitario. Se sparisse quest’oasi di bellezza dalla Terra, perderei una casa, una patria, una “heimat”, come dicono i tedeschi con un termine denso di significato. Eppure, per contrasto, l’immersione nella bellezza mi richiama alla mente le campagne ucraine devastate dalle bombe, le foreste e i campi di grano ustionati, le città ridotte in macerie. La sensazione è che sia finita un’epoca e che la nuova sia terribilmente buia. Ci siamo illusi di risanare le ferite inferte alla Terra ed invece eccoci qui ad ammazzarci fra noi.
Questa guerra non è solo la vendetta della Russia contro l’azione erosiva della Nato, non è solo l’aggressione di un despota. È qualcosa di molto più grande, che nasce da quello che il filosofo e storico tedesco Oswald Spengler (1880/1936) definì “Il tramonto dell’Occidente” in una monumentale quanto intricata opera del 1922. Oggi quel processo, così icasticamente definito nel titolo del libro di Spengler, si sta completando. La pretesa universalistica occidentale, la bramosia di conquista di altri mercati (non saturi come i nostri), la delocalizzazione delle produzioni per abbattere il costo del lavoro ed aggirare il fisco, l’illusione che denaro e corruzione possano riunire i potentati sotto un’unica bandiera si sono improvvisamente rivelati – con l’esplosione della guerra in Ucraina – un’illusione. Proprio Huntington, verso la fine del suo libro individuò profeticamente due comportamenti che avremmo dovuto tenere per “preservare la civiltà occidentale nonostante il declinante potere dell’Occidente […] nell’interesse degli Stati Uniti e dei paesi europei”. Il Primo è: “accettare la Russia come stato guida dell’Ortodossia e come grande potenza regionale con interessi legittimi alla sicurezza dei propri confini meridionali”. Il secondo è “riconoscere che in un mondo composto da più civiltà, l’intervento occidentale negli affari delle altre civiltà è […] la fonte più pericolosa dell’instabilità e di un potenziale conflitto planetario.” Il monito di Huntington è rimasto inascoltato – come quello di molti altri. Ma, si sa, l’Occidente è la più perfetta fra le società imperfette, il più pragmatico fra i sistemi politici ed economici, il prototipo di quella che il filosofo Karl Popper (1902/1994) chiamava “società aperta”. È per questa radicata presunzione che l’Occidente crede di non sbagliare mai, si sente portatore di una visione salvifica, quasi religiosa. Ed è una presunzione che non lo abbandona mai, neppure se si comporta peggio dei suoi nemici: sgancia l’atomica sui civili inermi di Nagasaki ed Hiroshima, fa guerre in Corea, Vietnam, Medio Oriente, ex Jugoslavia, Libia, Iraq, Afghanistan etc., innalza e depone dittatori, provoca colpi di stato, destabilizza paesi, sempre con la scusa di esportare democrazia, mettere ordine, imporre valori. E continua a spacciare per giusta la propria dottrina e per sbagliate quelle altrui.

Frusciano sotto i piedi le foglie dei faggi. Qui, nella società degli alberi, esistono valori che sono quelli immutabili della natura, si estende una rete “informatica” più perfetta di tutte quelle inventate dagli uomini, vi è una medicina senza farmaci, non trova cittadinanza alcuna tecnica, una scienza umile è iscritta nel codice genetico delle creature … e non esistono guerre. È a questo sistema di convivenza, relazione e cooperazione che dovremmo ispirarci, non a quell’enorme campo di sopraffazione, competizione e battaglia in cui abbiamo trasformato il mondo.

*Avvocato e scrittore

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