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La pistola al figlio tredicenne e la madre “scomparsa” per l’onore di famiglia: così cresce un boss

Le lezioni di tiro per il bambino a Capodanno. Il racconto dell’omicidio deciso in una riunione di famiglia. La giovinezza da braccio destro del nonno. La vita di mafia per Giuseppe Penna

Pubblicato il: 17/05/2022 – 6:58
La pistola al figlio tredicenne e la madre “scomparsa” per l’onore di famiglia: così cresce un boss

REGGIO CALABRIA Due “riti di iniziazione” lontani nel tempo e con diversi attributi drammatici. Eppure rappresentativi dello stesso codice mafioso. Avviene nella famiglia Penna, considerata dai pm della Dda di Roma pienamente appartenente alla ‘ndrangheta. E i riti coinvolgono due minori. Il primo, già “spalla” di suo nonno, scopre e accetta la morte di sua madre: ha “disonorato” la famiglia e deve sparire. Col tempo sale nella gerarchia mafiosa, diventa padre e, nella notte di Capodanno tra il 2017 e il 2018, porta il proprio figlio tredicenne nel piazzale dell’officina che gestisce nel comune di Monte Compatri e la trasforma in un improvvisato poligono di tiro. Giuseppe Penna e il proprio figlio minore arrivano pochi minuti prima della mezzanotte nell’area esterna della struttura dalla loro abitazione poco distante. Non sanno che le videocamere piazzate dagli uomini della Dia sono lì per riprendere tutto. Il bambino ha in mano una scatola bianca, la appoggia in terra quando i due sono fermi in mezzo al piazzale. Poi, con la mano destra, prende in mano una pistola e con la sinistra carica la cartuccia. Punta l’arma a braccio teso ed esplode sei colpi in rapida successione. Il padre osserva poco distante. Dopo aver sparato, controlla l’arma e si gira verso il genitore. L’esercitazione continua con la simulazione di altre posizioni di tiro a due mani, sempre a braccia tese. Poco dopo l’una l’allenamento finisce e il figlio di Giuseppe Penna ripulisce il piazzale.

Passato, presente e futuro nel nome della ‘ndrangheta

In questo racconto – sintetizzato nell’ordinanza di custodia cautelare che racconta l’inchiesta “Propaggine” – ci sono passato, presente e futuro dei clan impegnati sull’asse Roma-Cosoleto. Il presente è quello di un gruppo che punta a prendere il controllo di una fetta dei business criminali della Capitale. Il futuro è in quel training nel poligono di tiro improvvisato: è in quel tredicenne allenato a diventare un baby-soldato. Il passato affonda nella storia di Giuseppe Penna, nei tragici trascorsi della sua famiglia. E affiora da una delle conversazioni finite nell’inchiesta dell’antimafia capitolina. Intercettazione che, secondo il gip, aiuta a «comprendere fino a che punto la famiglia Penna sia pienamente inserita nelle logiche di ‘ndrangheta».
Penna, membro di spicco del “locale” romano, racconta nella circostanza una tragica storia, quella della scomparsa di sua madre, Grazia Alvaro, avvenuta nel 1990, quando lui aveva 16 anni. E conferma una delle ipotesi da sempre avanzate su quella morte, cioè che «fosse da ricondurre ad un episodio di lupara bianca maturato nel contesto familiare, per causa d’onore».

Grazia Alvaro, dodici ore di riunione e una lettera prima di morire

«Il problema di mia mamma è stato…uno sfregio di famiglia…», dice, prima di svelare che «l’omicidio era stato perpetrato all’esito di una lunga riunione di famiglia (“…hanno discusso dalle 8 di mattina alle 8 di sera….inc…mio nonno (Giuseppe Penna)…inc… mio zio Rocco… zii, fratelli di mio padre….fratelli di mia madre…erano tutti loro…. discutevano…chi voleva la morte di mia madre…”), a cui aveva partecipato anche la madre Grazia Alvaro». Secondo il racconto, la madre avrebbe «provocato il suocero, invitandolo ad ammazzarla e consegnandogli una lettera». Dopo averla letta, l’anziano «aveva rotto gli indugi e aveva ammazzato la nuora, sparandole davanti a tutti (“dopo che ha letto questa lettera… non gli ha detto nulla… non l’ha presa… si è alzata… inc… lui era capotavola seduto… l’ha guardata…le ha detto “… oggi… dopo che si è vista questa lettera… o vai e ti butti… (ti suicidi)… o vai”… gli ha detto… sbirra…gli ha detto… “oggi non esci da qui…” sparando… lui… si è fatto (ha ucciso) mia mamma”».
Penna racconta poi «i particolari relativi all’occultamento del cadavere della madre, dicendo che era stata seppellita in un appezzamento di terreno vicino Sinopoli».

«Chiantamula per là»

«Chiantamula per là», avrebbe detto il nonno per scegliere un luogo in cui seppellire sua nuora. Dopo l’omicidio, secondo il codice mafioso, «la sua famiglia – annota il gip sintetizzando l’intercettazione – aveva recuperato l’onore che aveva perduto a causa del comportamento sconsiderato della madre». Il giudice spiega che si tratta di «una tipica tradizione di ‘ndrangheta, organizzazione nella quale il concetto di onore viene sopra ogni cosa, a differenza di quello che accade per associazioni mafiose radicate in altri territori». Penna conferma nella captazione finita agli atti: «È stato rispettato… una volta che ha ucciso mia madre, le guerre di mafia… ammazzi a uno così… per la droga… per una cosa… non si sono adeguati… nel Lazio… a Napoli… non succedono le stesse cose… in Calabria ci sono altre tradizioni».
In questo un rito di iniziazione che cancella gli affetti, Giuseppe Penna sceglie l’onore distorto del clan. Se suo figlio impara a sparare nella notte di Capodanno, lui è cresciuto restando sempre accanto al nonno, vecchi capo mafia: «Sì… io ero capo fila… io ero il braccio destro di mio nonno… come ti devo dire? la guardia del corpo».

«Oggi ho ripulito». Storia d’onore e morte

«Il racconto – sono ancora parole del gip – è molto più drammatico di come sintetizzato dal pm. Certamente ci sono alcuni punti da evidenziare quanto al fatto che Giuseppe Penne, detto Pino, era presente al fatto e lo descrive in modo preciso, lo ha collocato in una vicenda di guerra di mafia da cui sarebbe dovuta nascere la pace ma poi sarebbe scattata una faida tra le due famiglie, quella paterna e quella materna». In effetti, dopo due anni, il 20 gennaio 1992, la vendetta colpisce proprio il nonno di Penna che cade per mano degli Alvaro.
Il contesto è chiarissimo. E parla di «rigidi rituali» adottati «per decretare l’uccisione di un familiare ritenuto reo di aver infranto le regole dell’associazione criminale». Grazia Alvaro viene additata come «sbirra». Forse la sua lettera «annunciava una possibile collaborazione con le forze di polizia, o una qualche delazione su fatti inerenti al famiglia o legati alla vita del marito». La morte della donna, secondo una frase attribuita da Penna al nonno paterno, dovrebbe chiudere una guerra. «Oggi ho ripulito…»: così l’anziano capoclan avrebbe chiuso la faccenda. Ma certe faccende non finiscono mai. Come la morte che circonda chi sceglie la ‘ndrangheta. (ppp)

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