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l’udienza

Rinascita Scott, Stilo lancia accuse gravissime a giudici, professionisti e avvocati

Il legale imputato nel maxi processo prova a difendersi. E tratteggia il sistema che avrebbe protetto Lo Bianco e altri boss

Pubblicato il: 17/05/2022 – 16:42
di Alessia Truzzolillo
Rinascita Scott, Stilo lancia accuse gravissime a giudici, professionisti e avvocati

LAMEZIA TERME L’avvocato Francesco Stilo, 50 anni, è imputato nel maxi processo Rinascita-Scott con l’accusa di concorso esterno per avere instaurato con le cosche Lo Bianco-Barba, Pardea-Ranisi, Fiarè-Razionale-Gasparro e Accorinti un rapporto di tipo collusivo, per aver consentito alle cosche di eludere le investigazioni , di acquisire notizie riservate, «mettendo a disposizione dell’organizzazione informazioni relative ad indagini in corso, ottenute attraverso appoggi e contatti presso soggetti istituzionali». Avrebbe fornito alle cosche vibonesi, è l’accusa della Dda di Catanzaro, «dichiarazioni di collaboratori o altri dichiaranti coperte da segreto istruttorio». Notizie, queste, che sono state sottolineate, nel corso del processo da collaboratori di giustizia come Andrea Mantella ed Emanuele Mancuso. E anche i recenti verbali del neo pentito Antonio Guastalegname remano in questa direzione: Stilo non teneva la distanza tra sé e i clienti appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta.
Oltre al concorso esterno, infatti, Stilo è accusato di varie ipotesi di rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio, e poi favoreggiamento personale, corruzione in atti giudiziari, intralcio alla giustizia, violenza privata. Dal 10 maggio viene interrogato in veste di imputato nel processo Rinascita Scott. Interrogatorio che prosegue anche da questa mattina. Già quando era ristretto nel carcere di Civitavecchia Francesco Stilo ha voluto rendere interrogatorio ai magistrati della Dda di Catanzaro. Le sue dichiarazioni sono state messe agli atti del processo.

Prologo

Nel corso dell’interrogatorio che si sta tenendo davanti al Tribunale di Vibo Valentia, nell’aula bunker di Lamezia, l’avvocato Stilo ha risposto alle domande del pm Antonio De Bernardo. Com’è facile immaginare, Stilo difende se stesso, parla del suo agire di avvocato che ha operato solo «difese tecniche», dice sé: «Sono egocentrico ma anche molto umile», afferma di avere sempre detto ai propri clienti di essere una persona indipendente, racconta di essere vissuto sotto scorta h24 nei primi anni 2000, su disposizione della Commissione dell’ordine e sicurezza, racconta le cause che ha vinto e di come ha ottenuto «un forte successo a livello professionale» con la vittoria, tra il 2006/2007, nella difesa di Giuseppe La Rosa, implicato in un procedimento penale a Milano per associazione dedita al narcotraffico con altri esponenti apicali del vibonese.
Ma Stilo non fa solo questo, non dipinge solo se stesso in senso immacolato, Stilo parla e punta anche il dito contro altre persone, avvocati, giudici, professionisti. Alcuni sono imputati nel processo Rinascita-Scott, altri sono difensori all’interno del processo, altri ancora sono togati e funzionari che lavorano negli uffici giudiziari del Distretto di Catanzaro. Le accuse sono gravissime, Stilo dice di essere già stato sentito a Salerno su questi argomenti. Nel corso della prima udienza nella quale è stato sentito in Rinascita-Scott, Stilo ha parlato per lungo tempo aprendo parentesi che senza fine tanto che lo stesso presidente del collegio, Brigida Cavasino, gli chiede di essere più conciso perché difficile da seguire. Si solleva l’avvocato Paride Scinica, difensore di Luigi Mancuso, «non riesco a comprendere – dice – se si tratta di un esame di un testimone o di un esame di un imputato. Mi pare che le domande rivolte e le risposte fornite dall’imputato Stilo non attengono alle imputazioni allo stesso rivolte, quindi, inviterei il Tribunale a perimetrare le domande dell’Ufficio di Procura». Ribatte il pm De Bernardo: «L’oggetto della deposizione riguarda l’imputato e riguarda tutti i fatti del processo, non è che devo chiedere solo dell’imputato, evidentemente, e comunque siamo nel perimetro dei fatti, di cui alla contestazione, perché l’eventuale conoscenza da parte degli imputati dell’esistenza dell’indagine e dell’operazione stessa, prima della sua esecuzione, è assolutamente rilevante per un sacco di posizioni». L’udienza prosegue.
Questa è la cronaca di una delle fasi più scottanti e più controverse del maxi processo Rinascita Scott.

Il «testamento spirituale» di Carmelo Lo Bianco

Stilo racconta di avere difeso Carmelo Lo Bianco all’incirca nel 2013-2014  e di avere intrattenuto con lui colloqui nel carcere di Parma.
«Carmelo Lo Bianco mi ha depositato un vero testamento spirituale quando era detenuto nel carcere di Parma nel 2013», racconta l’imputato che spiega che il boss di Vibo era consapevole che stava morendo e tra l’altro in carcere aveva contratto la Tbc tanto che i familiari intendevano fare causa all’istituto penitenziario perché il referti di Carmelo Lo Bianco parlava di motivi onco-ematologici. È in questa circostanza che intervengono i rapporti col figlio Paolino Lo Bianco.
Stilo racconta che Carmelo Lo Bianco era stato arrestato «per un cumulo di pene concorrenti», cioè per diverse condanne che era diventate definitive. Lo Bianco, dice Stilo, gli avrebbe rivelato che l’avvocato Pittelli e un altro legale non indagato in Rinascita Scott «gli avevano garantito di proseguire quella detenzione domiciliare anche in caso di definitività della sentenza, gli avevano garantito, previo esborso di una somma di denaro considerevole, di proseguire la misura nella forma della detenzione domiciliare. Suo malgrado nonostante avesse corrisposto delle somme molto esose, si parlava di centinaia di migliaia di euro, ora non ricordo, 150-180mila euro, queste garanzie andarono in fumo, poiché proprio a seguito di quel cumulo che le accennavo fu disposta la carcerazione del Lo Bianco e suo malgrado, non è che era risentito, ma di più, poiché non solo aveva esborso una grossa somma di denaro ai due avvocati, ma quanto vi era il problema che si trovava ristretto in carcere, quindi si sentiva ovviamente tradito».
Stilo dichiara che Carmelo Lo Bianco gestiva le nomine per potersi garantire le strategie processuali. Lo Bianco avrebbe imposto, oltre a un legale di sua fiducia anche Giancarlo Pittelli – «per un certo periodo di tempo» – «poiché poteva comunque, attraverso il rendiconto e attraverso l’utilizzo di determinati avvocati, poteva garantire la strategia processuale. Non era consigliare una nomina a un semplice detenuto ma imporre a un determinato detenuto la nomina. Imporre una strategia processuale significa che attraverso un avvocato si veicolano dei messaggi e si dice a quel detenuto “devi dire questo, non devi fare questo, devi fare quello, devi stare zitto”.
Carmelo Lo Bianco mi diceva che per questo tipo di avvocati lui imponeva le nomine per i suoi consociati». Secondo quanto riferisce Stilo, Carmelo Lo Bianco avrebbe ottenuto nel 2010 un provvedimento di incompatibilità col regime carcerario «grazie a una perizia. Il permanere in detenzione domiciliare era dovuto al fatto di una presunta corruttela dove intervennero i suoi legali di fiducia».
Per pagare intende pagare i giudici?, chiede il pm Antonio De Bernardo.
«Pagare non solo i giudici – dice Stilo – ma pagare anche per un accoglimento favorevole dei periti».

Le aderenze di Pittelli

Stilo afferma che Carmelo Lo Bianco gli disse anche «che Pittelli oltre ad avere aderenze nel campo dei giudici, quindi di queste famose corruttele che avevano adoperato, mi disse anche che avevano dei legami con diversi giudici per rapporti di natura massonica, cioè mi disse anche che Pittelli aveva dei rapporti diretti con determinati magistrati legati da altro».
Come faceva il boss di Vibo a sapere che Pittelli aveva queste aderenze?, chiede il pm De Bernardo.
Secondo Francesco Stilo «Carmelo Lo Bianco sapeva delle aderenze massoniche di Pittelli perché c’erano dei “sodali”, persone vicine a Carmelo Lo Bianco – che non rivestivano il ruolo di pregiudicato –, persone che riusciva ad avvicinare aveva dei rapporti di vicinanza, che partecipavano a quelle cene  a quegli incontri con determinati magistrati, che facevano parte delle logge massoniche a cui interveniva Pittelli.
Carmelo Lo Bianco sapeva quali erano i magistrati rispetto ai quali Pittelli aveva queste aderenze, queste conoscenze?, lo incalza il pm. Stilo, a questo punto, fa i nomi di due giudici, uno un tempo in servizio al Tribunale di Vibo Valentia, l’altro in Corte d’Appello a Catanzaro. E, continua, «mi ha fatto il nome di Petrini…». Rispetto al giudice Petrini Francesco Stilo asserisce che non faceva parte della loggia massonica «però ricadeva nella sfera dei giudici dove lui riusciva ad avere aderenze». Poi Stilo fa il nome di un commercialista di Vibo Valentia, «proprietario o comunque fratello dei proprietari» di un locale. Per quanto riguarda il processo d’appello Nuova Alba, Stilo racconta che a Carmelo Lo Bianco sarebbe stata garantita una pena ridimensionata tanto che il boss avrebbe dato del denaro nelle mani direttamente di Giancarlo Pittelli. «Ricordo bene – dice Stilo – che lui mi indicò il giudice Petrini che rideterminò». Secondo il racconto di Stilo, Lo Bianco è stato assolto da un capo di imputazione di estorsione e gli era stato garantito che «rimaneva la misura cautelare degli arresti domiciliari», cosa che non avvenne per cumulo di condanne divenute definitive.

Mancuso “Vetrinetta” e il processo Dinasty

Stilo racconta di avere difeso Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”, nel corso del processo Black Money. Qui viene messa agli atti una intercettazione tra Vetrinetta e l’avvocato Galati che trattano in un casolare l’argomento del processo “Dinasty”. In quel processo il presidente del collegio era uno dei giudici indicati da Stilo tra quelli in contatto con Pittelli. All’epoca, i difensori di Pantaleone Mancuso “Vetrinetta” provarono a introdurre la consulenza di un commercialista imparentato con il magistrato giudicante, che, dunque, avrebbe dovuto astenersi. Quella consulenza, però, viene revocata «perché – Stilo riferisce le parole di Mancuso – mi era stata garantita dagli avvocati l’impunità, cioè se io decidevo di revocare in udienza la nomina, quindi diciamo di non sollevare un vespaio». Niente imbarazzo per il giudice in cambio di un’assoluzione. Alla fine Pantaleone Mancuso verrà condannato. E Stilo giustifica la cosa con le parole che gli avrebbe riferito lo stesso Pantaleone Mancuso. Il boss avrebbe spiegato che al giudice «venne la soffiata che Mancuso Pantaleone si era vantato questo aspetto anche nelle carceri con altri detenuti, dice: “Tanto ormai mi assolvono perché ho fatto questa situazione, ho aderito a questa situazione”, siccome il giudice venne a sapere.. io riferisco quello che mi disse Mancuso Pantaleone, è chiaro». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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