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l’inchiesta

Offese, “tragedie” e regole di ‘ndrangheta. Il rischio di una guerra di mafia tra Roma e la Calabria

L’affronto alla famiglia Carzo a Cosoleto. La minaccia di ricorrere al “tribunale” dei clan o al «piombo» dei kalashnikov. Le cosche pensano ai soldi, ma il loro resta un codice tribale

Pubblicato il: 18/05/2022 – 7:00
di Pablo Petrasso
Offese, “tragedie” e regole di ‘ndrangheta. Il rischio di una guerra di mafia tra Roma e la Calabria

REGGIO CALABRIA «Seppellito il kalashnikov, oggi l’arma letale delle mafie è l’infiltrazione economico imprenditoriale» che si concretizza «costruendo nuovi rapporti con le comunità territoriali, ma invero senza mai dismettere il modello criminale di appartenenza con la Casa Madre e con i capitali da traffici illeciti da investire sul territorio in corso di colonizzazione». La storia del primo “locale” romano è, per i magistrati antimafia della Capitale, paradigmatica di questa trasformazione. Lungo il Tevere la ‘ndrangheta compra ristoranti, pescherie, punti scommesse e tabaccherie. E lo fa «senza urtare con i poteri mafiosi di tanti altri gruppi criminali che controllano le varie zone della Città Eterna». «Non è che io devo comandare qua a Roma – spiega uno degli affiliati in un’intercettazione eloquente –… a Roma io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli sono… questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta tutto con noi…mano mozza… li conosciamo tutti… a Torvajanica… al Circeo… sono amico di tutti e mi rispetto con tutti». Il gruppo romano è armato, ma non ricorre all’uso dei propri arsenali che funzionano, più che altro, come un deterrente per eventuali scontri. I kalashnikov, però, hanno rischiato di “cantare” sull’asse Roma-Cosoleto. Perché quando la “casa madre” e le sue regole d’onore chiamano non c’è business che tenga.

Le regole di ‘ndrangheta e l’offesa alla famiglia Carzo

Un tratto dell’ordinanza vergata dal gip distrettuale di Roma è il racconto di un’offesa. O, almeno, così la percepisce Antonio Carzo, uno dei vertici – assieme a Vincenzo Alvaro – della diarchia che governa la ‘ndrina romana. Storia di codici mafiosi e tribunali di ‘ndrangheta. Di rispetto e affronti concepiti come intollerabili nei distorto codice dei clan. Il cambio di latitudine muta le prospettive: se a Roma contano gli affari («c’è pastina per tutti», dice uno dei vertici della cosca), in Calabria vengono prima le norme tribali.
Accade che il padre di Antonio Carzo, l’81enne Domenico, venga “fermato” per “trascuranza delle regole”. Nelle telefonate intercettate dagli investigatori non emerge l’esatto motivo della sanzione – che impedisce al patriarca di partecipare alle riunioni per il conferimento di alcune “doti”, cioè incarichi nella gerarchia mafiosa. Quel che è certo traspare dalla rabbia del boss del “locale” di Roma per ciò che accade in Calabria: non soltanto un affronto, ma un tentativo di sminuire il peso criminale della famiglia.

La “tragedia” e l’intermediazione di Vincenzo Alvaro

La sanzione nasce da una “tragedia”, altro termine della ‘ndrangheta arcaica: un teatrino messo in atto da due affiliati per mettere in cattiva luce l’anziano. Domenico Carzo, «aveva ignorato una regola di ‘ndrangheta, circostanza – appuntano i pm – pacificamente riconosciuta anche dal figlio (…). Non si trattava di una violazione particolarmente grave, tenuto anche conto dell’età e del ruolo ricoperto in passato» dall’anziano. È per questo che il capo del clan romano crede che la questione sia facilmente archiviabile. A Cosoleto, però, i fatti vengono rappresentati in maniera distorta (da qui la “tragedia”) al reggente, Francesco Alvaro, che decide di di “fermare” l’81enne, che dunque non potrà reclutare un nuovo adepto nel proprio clan. La famiglia Carzo indaga e arriva alla conclusione che «qualcuno voleva colpire Domenico Carzo per eliminarne la presenza (dalla riunione in cui si conferiscono le “doti”, ndr) e diminuire il potere dei Carzo sul locale di Cosoleto». La questione viene affrontata, in prima istanza, in una camera di compensazione romana. Carzo, rivolgendosi a un intermediario, incontra Vincenzo Alvaro in un supermercato il 9 maggio 2018 e gli chiede di intervenire per evitare che il padre sia effettivamente “fermato”. «Io intanto a lui (cioè al reggente Francesco Alvaro, ndr) ho mandato Vincenzo», riferisce a un altro membro del clan, «lo prende a calci». Per i magistrati è una mossa che vuole evitare il «pericolo di una faida» e, allo stesso tempo, la conferma «che Vincenzo Alvaro è un soggetto organico alla ‘ndrangheta e con una dote di altissimo livello». Così alta da intervenire per frenare le decisioni di un reggente.

Il rischio di un conflitto armato e la minaccia. «Vi metto contro una “Provincia”»

Lo scontro sull’asse Roma-Cosoleto, però, rischia di esplodere: i Carzo non credono che Francesco Alvaro sia stato tratto in inganno ma lo immaginano complice del piano per indebolirli. E pensano a una rappresaglia. Eccola: se il padre del boss «fosse stato accusato formalmente di “trascuranza”, Antonio Carzo avrebbe reagito chiedendo che fosse messo sotto processo lo stesso Francesco Alvaro tanto per “trascuranza” delle regole in riferimento al conferimento di una nuova dote di ‘ndrangheta al fratello Nicola Alvaro, che non la poteva ricevere, come per il fatto che Antonio Alvaro, padre di Francesco, doveva essere messo sotto accusa per essere un “infame”, in quanto confidente di polizia». Una mossa che porterebbe lo scontro davanti al più alto livello decisionale della ‘ndrangheta. «Vi metto contro una “Provincia”», dice Carzo, chiamando in causa l’organismo che, scrive il gip, «dovrebbe ordinamentare l’esercizio del potere sanzionatorio della ‘ndrangheta», il massimo “tribunale” mafioso. Il confronto è durissimo. Lo stesso capoclan “romano” lo comprende: «C’era il rischio – sono parole dei magistrati – che le cose precipitassero e che si potesse scatenare un conflitto armato tra le due anime del locale di ‘ndrangheta di Cosoleto». Un rischio che «sembrava delinearsi come possibile soluzione del conflitto in atto, anche a seguito della minaccia» di intervento «da parte di Carmine Alvaro, detto Cuvertuni, capo del locale di Sinopoli», feudo storico nel quale nasce la casata mafiosa degli Alvaro.

I kalashnikov da «far vedere» per mandare un messaggio

«Vedete che qua si va a finire nel piombo», sintetizza in maniera efficace Antonio Carzo, che reclama rispetto per la propria famiglia da parte del reggente di Cosoleto («ci deve rispettare per forza») ed evidenzia che che lui fa parte dei «grandi», cioè della Società maggiore della della ‘ndrangheta («io sono uno dei grandi qua, eh! E mi deve mandare l’imbasciata prima di tutti»).
In realtà il rischio che i fucili tornino a sparare c’è, anche se la contesa, dopo aver raggiunto l’acme della tensione, rientra. Ed è il solito Carzo a renderlo esplicito. quando valuta «la possibilità di intimidire» i due picciotti che hanno messo in cattiva luce suo padre «con velate minacce, facendo vedere due kalashnikov di cui aveva disponibilità». «Solo a farglieli vedere così», spiega. Passaggio che, secondo il gip, chiarisce «come certe questioni possano essere regolate all’interno della ‘ndrina ma quando si superano certe soglie di tolleranza, allora si passa alla via delle armi, prima quale minaccia e poi come “scupettate”». (p.petrasso@corrierecal.it)

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