LAMEZIA TERME Un luogo caratterizzante, vuoto e silenzioso, contrapposizione di spazi e immagini nel cuore della città di Lamezia Terme, nel traffico delle vie affollate. Qui il sole e il cielo sono gli stessi da secoli, affacciandosi nel cuore di un luogo che, invece, si è adattato alle mutazioni del tempo delle necessità, senza mai cancellare la sua essenza.
Siamo nell’ex carcere di Lamezia Terme, nel quartiere San Francesco di Nicastro. E qui, nel perdurare del tempo appeso ai resti di un’epoca recente ma già dimenticata, regna sovrano un silenzio assordante che si scontra con la frenesia che abita a pochi metri. Anche la natura e il suo ciclo di vita e morte hanno scelto di non invadere la geografia di questo edificio svuotato, accompagnandone l’evoluzione e quello che ancora non è un effettivo declino, né strutturale né spirituale. Tutt’altro.
«L’edificio – spiega ai microfoni del Corriere della Calabria Giorgia Gargano, assessore del Comune di Lamezia Terme – è un monastero dei padri riformati, fondato tra il XIII e il XIV secolo, la cui struttura architettonica si legge benissimo tuttora, nonostante le ricostruzioni nel corso dei secoli, dopo il terremoto devastante del 1638 e poi le modifiche strutturali necessarie dopo il cambio di funzione, nel 1876. In quell’anno, infatti, il monastero è diventato di proprietà comunale e poi adibito a carcere». «Si leggono tutte queste fasi della storia dell’edificio, sia nelle architetture, sia nella rifunzionalizzazione degli ambienti ognuno dei quali però non ha cancellato la sua storia precedente, ecco la ragione di questo interesse». Fino al 2015, quando il carcere di Lamezia Terme fu definitivamente chiuso, con il successivo (e repentino) trasferimento dei detenuti e del personale nella nuova ala nella casa circondariale di Catanzaro nel quartiere Siano, suscitando non poche indignazioni da parte della comunità e anche dal Sappe.
Una sovrapposizione di stati d’animo che si legge ancora percorrendo lo storico edificio insieme all’assessore Gargano, in occasione delle giornate di primavera del Fai. «Anche perché – spiega al Corriere della Calabria – tutti i detenuti che erano qui reclusi sono stati trasferiti velocemente nel 2015». Ma delle loro condizioni sono rimaste per tutto l’edificio ancora le tracce: dai fogli di giornale ancora attaccati alle pareti, ai segni sui muri e sui pavimenti. Gli avanzi di una monotona routine e di una convivenza forzata e in spazi ristretti che per decenni ha scandito il tempo e la vita qui dentro.
Il nostro lungo percorso ci ha permesso di scrutare e scorgere angoli nascosti dell’ex carcere, cogliere quella che era l’essenza vitale di questo storico edificio: le immaginette sacre appese alle porte, le massicce porte di metallo, le possenti inferriate che contrastano con le piccole finestre dalle quali filtra solo qualche pallido raggio di sole, ma soprattutto le esigue dimensioni delle stanze, circostanza che accomuna tuttavia la detenzione in gran parte delle carceri italiane. Qui però molte cose sono rimaste intatte, come sospese in un tempo tuttavia non troppo remoto: segni di una convivenza tra detenuti e agenti penitenziari, sebbene vissuta sui lati opposti della stessa barricata.
«Le celle che fino al 2015 erano destinate alla detenzione, erano in realtà le celle in cui dormivano i frati francescani». «È stato un abbandono improvviso e oggi – spiega ancora la Gargano – questo suo essere un edificio vuoto e defunzionalizzato è evocativo anche di una storia che è nostra, contemporanea, e che ci spiega quella che è la vita di un detenuto, la carcerazione, ma anche quella di un poliziotto penitenziario che deve vivere in un contesto di questa durezza». (1. continua)
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