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Le mani della ‘ndrangheta nel Lecchese. «Tra omertà e rassegnazione»

In due anni si è registrato il dato record di 27 interdittive antimafia. Ma i clan dominano da anni il territorio. Viaggio nella provincia colonia delle cosche calabresi

Pubblicato il: 21/05/2022 – 7:00
di Roberto De Santo
Le mani della ‘ndrangheta nel Lecchese. «Tra omertà e rassegnazione»

LECCO La ‘ndrangheta nella provincia di Lecco si conferma come una presenza costante e capace di condizionare il tessuto economico e produttivo locale. A dimostrazione di questa asfissiante presenza il numero sempre più crescente di interdittive antimafia scattate sul territorio. In due anni nel Lecchese sono stati 27 i provvedimenti firmati dalla Prefettura. L’ultimo lo scorso 9 maggio nei confronti di un’officina in mano ad un imprenditore legato ai clan calabresi.  Si tratta della “Nuova carrozzeria lecchese” di via Tagliamento a Lecco tra i titolari Roberto Mandaglio, 44enne lecchese residente a Pusiano ma domiciliato in Svizzera, finito al centro dell’operazione “Cavalli di razza”. Un’inchiesta, condotta dalla Distrettuale di Milano, che ha portato a novembre scorso a fare emettere 104 misure cautelari tra Lombardia, Toscana, Calabria e Svizzera. Il 44enne avrebbe garantito, secondo quanto emerso dalle indagini, un posto sicuro dove nascondere la droga da smerciare sul ricco territorio, non solo della zona.
Secondo quelle indagini, proprio all’interno della sua officina, le auto sarebbero state modificate per nascondere la coca in appositi vani. Da qui la decisione adottata dal neo prefetto di Lecco, Sergio Pomponio, di firmare il suo primo provvedimento di interdittiva, che segue i 26 adottati in 24 mesi dai suoi predecessori. Un record per la Lombardia, dicono i dati, che pone questo territorio nuovamente al centro dell’attenzione mediatica.

Il territorio dei Coco Trovato

«Lecco è un territorio dove spesso le organizzazioni mafiose e la ‘ndrangheta in particolare, cercano di infiltrarsi per collocare i loro affari, i loro interessi. Condizionando quella che è la realtà imprenditoriale locale, gli appalti pubblici e l’economia complessiva». Il recente commento rilasciato dall’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso in un incontro con gli studenti del Bachelet di Oggiono, nel Lecchese, dimostra come l’attenzione dei clan calabresi per il territorio della provincia lombarda sia elevato. Un’attenzione non nuova per una delle province più ricche d’Italia.

Il boss Franco Coco Trovato sta scontando una pena detentiva a vita

La presenza della ‘ndrangheta nella zona, infatti, risale al 1967 quando il boss Franco Coco Trovato da Marcedusa, nel Catanzarese, arrivò in questa provincia trasformandola, dicono le indagini, progressivamente in un feudo sotto il suo diretto controllo. Il boss, che sta scontando una condanna all’ergastolo, era riuscito a divenire il dominus incontrastato dell’edilizia, imponendo la dura legge dei clan calabresi.
Grazie alla parentela con i De Stefano – la figlia ha sposato Carmine De Stefano, primogenito di Paolo – Trovato ha potuto accrescere il suo potere. Gli storici dei fenomeni mafiosi indicano proprio in quel legame, la base da cui le cosche calabresi sono riuscite ad insediarsi in Lombardia, fino a divenirne una delle organizzazioni criminali che maggiormente condizionano la vita economica, politica e sociale della regione. A disvelare il “peso” specifico dei Trovato non solo nel Lecchese da dove ha preso le mosse, l’operazione “Wall Street” – dal nome della pizzeria intestata alla moglie del boss – conclusasi nel 1997 con condanne per 1.700 anni di carcere. Un processo che ha visto proprio il potente capomafia come l’imputato numero uno.
Secondo le indagini, Coco Trovato dai primi degli anni Ottanta comandava «una cellula criminale con base a Lecco, e sotto di sé può contare (…) circa 1.400 uomini tra Lecco e la Brianza».

La rimozione nel 2000 delle insegne del locale “Wall Street” sede bunker della cosca Coco Trovato a Lecco (Foto: Cardini)


Ma i legami intessuti dal boss con altre consorterie criminali, tra cui spiccano quella con Felice Maniero, capo incontrastato della “mafia del Brenta”, con i Mancuso (dominus della Brianza) e con gli Schettini nel Milanese, hanno permesso alla “famiglia” malavitosa impiantatasi nel Lecchese di riuscire a mantenere sotto il loro controllo l’intero territorio. Nonostante gli arresti seguiti all’operazione “Wall Street” indicata come la prima che segnalò la presenza costante e radicata dei clan calabresi nel Nord Italia. A questo proposito il sostituto procuratore che allora coordinò le indagini, Armando Spataro disse nel 1993: «Abbiamo la prova di una scelta di trasferimento in certe aree da parte della mafia. Poi arrivano gli amici, poi le famiglie, infine si esercita il controllo del territorio». 
Ma le altre inchieste che seguirono – “Lario Connection” (sul traffico illecito di rifiuti tossico-nocivi e su attività di strozzinaggio) e “Mala Avis” (sul narcotraffico tra le province di Lecco, Milano, Como, Varese, Lodi e Cremona) – dimostrarono la capacità di diversificare le attività criminali della cosca e di intessere relazioni tese ad espandersi al di fuori del Lecchese.  Interessi e potenza di fuoco emersa anche nell’inchiesta “Easy Rider” del 2003 che dimostrò come i Trovato continuassero a mantenere salde le mani sull’intero territorio. Appena tre anni dopo due operazioni – Soprano e Oversize – chiarirono le dinamiche interne alle famiglie di ‘ndrangheta. Con i genitori in carcere, gli uomini del clan Trovato erano guidati dai figli. E le diversificazioni delle attività illecite si erano ormai spostate sul controllo, anche, della gestione ed installazione delle macchinette dei videopoker.

Le altre operazioni e le famiglie coinvolte

L’operazione Crimine-Infinito che ha colpito anche i clan che operano nel Lecchese

Ma la storia della presenza della ‘ndrangheta nel Lecchese, non vede protagonisti solo i Trovato. Nel 2007 l’inchiesta “Ferrus equi” svelò l’attività dei De Pasquale nella zona. Anch’essi originari della Calabria, gli uomini di questa cosca retta secondo gli inquirenti, da Peppino De Pasquale, si erano concentrati su molte attività illegali, fra le quali traffico d’armi e di droga, ricettazione di veicoli ed assegni, estorsione a danno di imprenditori, truffe, falsificazione di documenti, recupero violento dei crediti, usura, corruzione, favoreggiamento di latitanti, induzione in errore di pubblici ufficiali, danneggiamento a seguito di incendio, violenza privata e minacce di morte. Accuse mosse all’interno di quel procedimento che per la prima volta non vedeva indagato nessuno dei Trovato.
Ma l’operazione che più di altre ha dimostrato la caratura dei clan presenti nella zona, è emersa in due maxi inchieste: “Crimine-Infinito” e “Infinito-Tenacia”. Entrambe coordinate dalla Dda di Milano e scattate nel 2010. Inchieste che disvelarono la capacità delle cosche calabresi di infiltrarsi nell’economia locale. In particolare, nell’operazione “Crimine-Infinito”, nei guai finì il giovane imprenditore Ivano Perego che cedette, come emerse dalle indagini, il controllo della “Perego Strade” a uomini delle cosche calabresi. Un episodio che dimostrò il primo caso di «impresa a partecipazione mafiosa» nel Nord, come la definì Enzo Ciconte: «non è espressione diretta della mafia, ma può diventare un’impresa di servizio per gli interessi del mafioso ed un’impresa di riferimento per investire in modo pulito i suoi capitali».  L’operazione in questo caso dimostrò la presenza a Lecco della famiglia Pelle di San Luca.

Una manifestazione antimafia a Lecco


Nel 2014 ritornò poi alla ribalta l’attività della famiglia Coco Trovato. Nel corso dell’inchiesta “Metastasi” finirono nei guai esponenti politici di primo piano di Lecco e provincia per un presunto giro di tangenti pagate dal clan calabrese. Agli arresti finirono tra gli altri il sindaco ed un consigliere comunale di Valmadrera e le indagini lambirono anche l’allora primo cittadino di Lecco.
Ilda Boccassini, pm di quell’inchiesta, dichiarò che era stato accertato il «connubio tra bracci armati della ‘ndrangheta, addette alle estorsioni e ad altri atti di violenza, con esponenti delle istituzioni».

Il rito di affiliazione alla Santa a Castello di Brianza

Un frame dell’intercettazione del Ros della cerimonia di affiliazione alla Santa a Castello di Brianza

Nelle carte dell’inchiesta “Insubria” scattata il 18 novembre del 2014 tra le province di Lecco, Como, Milano, Bergamo, Monza Brianza, Verona e Caltanissetta emergono alcuni episodi importanti della presenza dei clan calabresi nel Lecchese. Innanzitutto l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta a Calolziocorte (nel Lecchese), oltre a due nel Comasco (Cermenate e Fino Mornasco). Ma soprattutto i carabinieri durante le indagini registrano per la prima volta in un territorio esterno alla Calabria, il rito di affiliazione alla “Santa”. In particolare gli uomini del Ros a Castello di Brianza, nel Lecchese, catturano il momento della “celebrazione” di affiliazione ad uno degli ultimi gradi della gerarchia calabrese della ‘ndrangheta degli uomini della cosca, operante a Calolziocorte.
A dimostrazione dell’elevato spessore criminale raggiunto dalla cosca presente nel Lecchese.

Le ultime indagini

Un frame delle intercettazioni finite dell’inchiesta contro i clan operanti nel Lecchese

Sono dello scorso anno le ultime importanti inchieste scattate nel Lecchese.  L’operazione “Cardine – Metal Money” del 9 febbraio 2021, nella quale la Polizia di Stato e la Guardia di Finanza di Lecco – con il coordinamento della Dda di Milano – hanno eseguito una misura cautelare nei confronti di 18 indagati accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, usura, autoriciclaggio ed estorsione.
In quell’inchiesta è finita al centro delle indagini la cosca retta dal 72enne Cosimo Vallelonga operante a La Valletta Brianza (nel Lecchese), ma originario della Calabria. Una consorteria storica anche questa.

Il boss Cosimo Vallelonga ripreso nel corso delle indagine “Cardine – Metal Money” (foto: Lecconews)

Il 72enne era stato già condannato negli anni Novanta a seguito dell’inchiesta “I fiori della notte di San Vito” ed era finito al centro dell’operazione “Infinito” del 2010. Nella nuova inchiesta, gli inquirenti, sono riusciti a dimostrare come i Vallelonga non avessero mai cessato di essere un punto di riferimento dei clan calabresi e delle cosche che operano in Lombardia. Mentre il 24 maggio del 2021, in un’operazione condotta dal Noe dei carabinieri di Milano contro il traffico illecito di rifiuti, era emersa la presenza sempre nel Lecchese di una struttura criminale legata alle cosche calabresi. Ed infine a novembre scorso l’inchiesta “Cavalli di razza” da cui è scaturita appunto l’ultima interdittiva antimafia che pone il Lecchese nella non felice situazione di essere uno dei territori con un maggior numero di provvedimenti scattati in due anni. Un quadro allarmante anche per «quel senso di tacita e remissiva consapevolezza o acquiescenza al fenomeno criminale medesimo e ai suoi referenti» ormai diffuso tra la società civile locale, denunciato dall’ex prefetto di Lecco Castrese De Rosa. Che tradotto si tramuta in omertà e rassegnazione anche in terra di provincia lombarda. (r.desanto@corrierecal.it)

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