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«Enrico, se tu fossi qui»

Cento anni fa nasceva in Sardegna, da una famiglia ricca ed aristocratica, Enrico Berlinguer. Sarebbe vissuto 62 anni, morendo sul campo, come Achille, in un estivo comizio di Padova. Troppi per e…

Pubblicato il: 23/05/2022 – 11:35
di Mario Campanella*
«Enrico, se tu fossi qui»

Cento anni fa nasceva in Sardegna, da una famiglia ricca ed aristocratica, Enrico Berlinguer. Sarebbe vissuto 62 anni, morendo sul campo, come Achille, in un estivo comizio di Padova. Troppi per essere dimenticato, troppo pochi per non essere idolatrato, li, fermo con la sua immagine eterna di ragazzo cresciuto, grande padre di proletari e operai, accompagnati per 15 anni in un viaggio chiamato amore. Non era un riformista Enrico, ma un massimalista moderato, l’ossimoro perenne di chi doveva mantenere alta la passione verso il sol dell’avvenire e la consapevolezza di una condanna peritura a essere figlio di un Dio minore.
Sul piano strettamente politico Craxi lo superò, e di molto, portando a sinistra lo “scandalo” della modernizzazione, la volontà del merito antitetica al dogma del bisogno. Ma chiunque, anche il più eretico dei fascisti o il più clericale dei democristiani, si fidava di quello sguardo acuto e lucido, il mantello della coltre etica, da cui nacque la profetica visione della questione morale. L’agiografia di vulgata ha raccontato tutto su di lui: la distanza da Mosca, l’ombrello della Nato, l’attentato scampato a Sofia, il sogno trafitto di un’Italia rinnovata con la morte di Moro e il sigillo alle larghi intese. Berlinguer era il fratello genuino e fedele di un italiano su due, il compagno rivoluzionario di una marcia senza meta, consumata mentre l’Italia apriva la voragine del malcostume, accompagnando la deriva di una Repubblica logorata dal decadentismo più assoluto.
Il paese operaista e industrializzato si consegnava al sogno di un’alternativa al monolite del centrismo, immaginando un futuro diverso e mai arrivato. Berlinguer aveva dovuto mangiare pane e sangue negli anni di piombo, lacerato dai compagni che “sbagliavano”, superato a volte a sinistra dal carisma di Lama, avvolto dal conservatorismo della più grande chiesa laica d’Europa. Nulla salus extra ecclesiam.
Ci siamo tutti, in un modo o in un altro, aggrappati a Berlinguer, almeno una volta nella vita. E su quel corpo reso inerme dalla passione di chi lascia uno scalpo il corteo di San Giovanni, con i  fischi a Bettino, il saluto di Almirante, il pianto di Pertini. Forse è finita davvero il 1984, come una nemesi simbolica orwelliana, la favola del potere al popolo. Con essa, il cammino impervio del comunismo mediterraneo di cui egli era il simbolo più dolce. Qualcuno era comunista, cantava Gaber, perché c’era Berlinguer. Cento anni sono pochi nel corso della storia, molti nella vita di un uomo. Eppure il vento di Enrico soffia ancora sulle teste ormai bianche di chi lo ha impresso nel cuore

*Giornalista

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