LAMEZIA TERME Hanno il volto segnato dal dolore, dalla sofferenza costante che solo la perdita ingiusta di un familiare può dare. Hanno sorrisi spenti di circostanza, da regalare a chi mostra vicinanza, rispetto ed empatia. Ma soprattutto hanno sete di giustizia. Sono loro, le vittime della criminalità organizzata, testimoni della violenza cruenta e crudele della ‘ndrangheta e dei segni indelebili, le ferite profonde che restano dentro per sempre. La loro presenza e testimonianza è un tratto distintivo della lotta sociale di un popolo, quello giusto, che si ribella come può, combatte fino a sfiancarsi contro chi cerca di soffocare, ancora, una terra ormai logora e che tenta, a fatica, di ricucire le ferite e le distanze tra il bene e il male, tra ciò che è stato e quello che potrà essere un giorno.
Ma intanto resta la sofferenza, la consapevolezza che in fondo non tutte le promesse fatte poi alla fine vengono mantenute. E allora c’è chi aspetta ancora risposte, chi giustizia, altri solo una mano tesa, una pacca sulla spalla, una presenza. È nel silenzio di istituzioni ed enti distratti che allora il grido di testimoni e vittime di ‘ndrangheta si fa più forte, cercando quelle parole in bilico tra amarezza e speranza. Giornate come il 23 maggio per la strage di Capaci o quella di oggi in cui vengono ricordati i netturbini Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, uccisi barbaramente a Lamezia Terme all’alba del 24 maggio del 1991, sono evidentemente necessarie ma il rischio è che lentamente si svuotino di significato quando le istituzioni e la politica si fermano a metà del cammino. L’occasione è la presentazione di una nuova norma da parte del deputato del M5S Giuseppe D’Ippolito e che possa garantire maggiori diritti a vittime di mafia e testimoni di giustizia.
«Ho l’impressione – confessa al Corriere della Calabria Rocco Mangiardi, testimone di giustizia – che oggi si faccia solo memoria. Insegniamo ai ragazzi queste storie, facciamo ricordare loro nomi di vittime, ma credo che gli adulti e gli insegnanti debbano parlare di queste cose ma soprattutto portare il loro esempio per essere credibili altrimenti abbiamo insegnato ai ragazzi solo dei nomi, una strage, e non si va avanti». Quella di Rocco Mangiardi è una storia emblematica: un uomo, un imprenditore, che ha deciso di ribellarsi a chi cercava di imporgli il pizzo, puntando poi in aula il dito contro chi ha fallito miseramente il proprio piano criminale. Mangiardi però non nasconde una certa amarezza: «Nell’arco di questi ultimi anni siamo stati abbandonati un po’ tutti, vittime e testimoni. A parte le passerelle iniziali, siamo stati lentamente abbandonati, nessuno è più venuto a vedere come stiamo. Avremmo magari bisogno anche solo di una pacca sulle spalle che non c’è mai stata, vedere come va il lavoro, e intanto ci ritroviamo ad andare nelle scuole, a parlare con i ragazzi mostrandoci con il sorriso e sforzarci di far comprendere che ne vale la pena. Ma è umiliante testimoniare ed essere poi abbandonati da chi ci dovrebbe proteggere».
Testimoni e vittime, quelle costrette ogni giorno dal 25 ottobre 2012 a fare i conti con la perdita di un figlio. È la famiglia Ceravolo che piange da quasi dieci anni l’omicidio di Filippo, ucciso a 19 anni vicino al calvario di Vazzano, nel Vibonese. Una storia tragica, così come la fatalità che si è consumata sullo sfondo delle lotte dei clan Loielo ed Emanuele e l’attacco diretto Domenico Tassone che guidava l’auto presa di mira da una pioggia di fuoco, a bordo della quale, sul sedile del passeggero, c’era proprio Filippo Ceravolo. «Sono nelle mani di Dio, in quelle del procuratore Gratteri e del procuratore Falvo e a breve, spero, mi daranno le risposte che aspetto, sono fiducioso». Una fiducia instancabile quella del papà, Martino Ceravolo, una tenacia che affonda le radici nella ricerca di giustizia. «Non è facile andare avanti – dice – perché vedere il proprio figlio dentro ad una bara bianca, andare al cimitero, non lo auguriamo a nessuno. Ma la base principale è la giustizia e dobbiamo aspettare. Questi assassini devono stare in carcere perché il vero ergastolo lo viviamo noi che restiamo fuori, a noi resta il dolore». Poi l’appello: «Tutti i partiti politici devono capire da che parte stare, non devono ricordarsi solo in queste occasioni di commemorazione come quella di Falcone, di Borsellino o dei netturbini di Lamezia, devono decidere da quale parte stare. C’è una legge dal 2018 che prevede una percentuale di assunzioni di vittime di mafia. Con il consigliere Mammoliti abbiamo fatto la proposta di legge, sono già scaduti 90 giorni ma non abbiamo avuto risposte, non capisco perché queste leggi che già ci sono non vengano applicate, non dobbiamo chiedere favori a nessuno, a nessun politico di qualunque schieramento, devono decidere tutti loro di essere concreti e portare risultati». «Ed è inutile, ad esempio, che in tanti si schierino con Gratteri se poi gli chiudono le porte, non bisogna avere paura di schierarsi apertamente. Io ho perso un figlio di 19 anni e ho la libertà di parlare, di dire il giusto: bisogna stare vicino ai testimoni di giustizia, alle vittime sempre non solo in occasione delle giornate di memoria».
Ed è proprio oggi, 24 maggio, che si riaccende la memoria sul terribile omicidio dei due netturbini avvenuto nel quartiere Miraglia di Lamezia. Il fratello di Pasquale Cristiano, Francesco, ha affidato il suo appello ad una lettera: «Furono vittime innocenti e sacrificali di una lotta cruenta tra gruppi criminali mafiosi a Lamezia – ricorda – per come ricostruito dalla sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro che, pur assolvendo l’unico imputato per insufficienza di prove, accettò che il barbaro eccidio fosse un messaggio significativo tanto più efficace quanto più determinato da bestiale efferatezza rivolta a pubblici e privati, un messaggio che preannunciava nuovi equilibri mafiosi e dei quali non poteva non tenersi conto dei miliardi previsti per la nettezza urbana». «I due operatori – ricorda ancora Francesco Cristiano – morirono perché si trovavano al posto giusto al momento giusto e nel posto giusto. Ma può una città, una comunità civile accontentarsi soltanto di un accertamento dei fatti, ci si può accontentare ogni anno – seppur meritoriamente – del rituale di commemorazione di questo tragico accadimento e ritenere di aver soddisfatto i nostri compiti? A 31 anni di distanza ritengo che occorra trovare il modo di riaprire le investigazioni per l’accertamento della verità, per il perseguimento della giustizia incompiuta. E i diritti e il risarcimento che le istituzioni debbono alle vittime della ‘ndrangheta e ai loro familiari».
Drammatica poi la ricostruzione di Eugenio Bonaddio, vittima incolpevole dell’attentato omicida del 24 maggio, scampato alla morte miracolosamente, un sopravvissuto. Di quella terribile mattina ha ancora i segni fisici, ma anche quelli indelebili scolpiti nell’anima e nel cuore di un uomo che ha assistito alla furia omicida dei killer di ‘ndrangheta. «Vorrei – confessa Bonaddio – che maggio non venisse mai. Sono passati 31 anni e ancora nelle orecchie sento il fischio degli spari del Kalashnikov quando sono morti i miei due colleghi». «Di quella mattina del 24 maggio del 1991 sento ancora le urla di Cristiano e Tramonte, sono stati attimi, dieci secondi, tutti e tre in un camion, chiusi, senza poter uscire. Poi non ho sentito più niente, mi sentivo a pezzi, avevo un braccio rotto, altri colpi addosso e non sapevo come scappare, prima di riuscire a trovare qualcuno che mi portasse d’urgenza in ospedale». Come un tormento le domande di Bonaddio sono ancora le stesse da 31 anni: «Ho fatto tre incidenti probatori, quando mi mettevano davanti cinque persone da riconoscere io non ho mai esitato, il killer l’avevo visto dallo specchietto retrovisore quella terribile mattina. Poi durante il processo mi hanno portato davanti il fratello gemello e allora tutto è crollato». E ancora: «Una persona che va a sparare senza avere una lira in tasca, come faceva a permettersi avvocati di prim’ordine? Il pm Calderazzo ricordo che mi sosteneva, mi diceva di aver fatto bene a testimoniare ma non è servito a nulla. Mi dicono di aspettare che salti fuori un pentito ma uno in realtà c’è già stato, ha fornito dettagli e nomi, ma non è stato creduto. Non so se avrò mai giustizia, sono passati 31 anni e non abbiamo avuto nulla da nessuno. Ora stiamo lottando con Martino Ceravolo, per poter ottenere qualcosa per i nostri figli per tutto quello che abbiamo passato». (redazione@corrierecal.it)
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