CHIARAVALLE «Anche quando c’è stato il dibattito processuale, tante volte non sono andato. Anche sul piano emozionale, preferisco così non c’è alcun motivo particolare». Risponde così ai giornalisti Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace per il quale oggi è iniziato il processo d’appello al Tribunale di Reggio Calabria, dopo la condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi. Udienza davanti alla Corte d’Appello alla quale però Lucano ha scelto di non prendere parte. Nessuna ragione specifica, spiega Lucano, che si appella ancora una volta a quella «giustizia dei più deboli, una volta – dice – si parlava di giustizia proletaria». L’occasione per parlare Lucano la coglie a Chiaravalle nel corso dell’incontro per il premio “Liberetà” promosso dal Coordinamento Donne SPI Cgil di Chiaravalle Centrale in collaborazione con lo Spi Cgil Calabria e Auser Calabria.
Mimmo Lucano, come al suo solito, davanti ai microfoni si lascia andare ad una sorta di sfogo, un confronto “intimo” con chi cerca di scrutarne sentimenti e sensazioni dopo questi ultimi anni durissimi per lui e per quel “modello Riace” frantumatosi tra le pagine dell’inchiesta “Xenia”. «Ma – precisa subito – non voglio rivendicare alibi perché potrei dire ad esempio che “mi sono occupato di temi importanti”. Invece guardiamo reato per reato, vi invito a fare questo. È giusto che mi abbiano condannato per un gesto di umanità? Perché ho fatto carte d’identità e non mi sono fatto pagare? Questo è l’interrogativo che vorrei si risolvesse. È giusto che io sia condannato solo perché mi hanno accusato di aver mantenuto (a Riace ndr) più a lungo le persone? Qual era il mio obiettivo? Era sicuramente rispettoso, ma non della legalità che si basa su delle linee guida». «Se le avessi rispettate – riconosce Lucano con una certa amarezza – e come sindaco avessi detto “cacciate fuori quelle persone” dopo i sei mesi, sarebbe stato tutto risolto, non sarei incorso in alcun reato. Nel reato di truffa, in quello di abuso d’ufficio. E poi questo dell’associazione a delinquere».
Mimmo Lucano proprio non riesce a darsi pace pensando alla condanna inflitta in primo grado, quasi il doppio rispetto a quanto chiesto dall’accusa. «Voglio sperare che si nasconda qualcosa. Io il 17 giugno sono stato invitato in uno dei luoghi più importanti dell’antimafia sociale, a Palermo, dove tre persone che hanno ricostruito la vicenda attorno all’omicidio di Impastato, presenteranno un dossier sul mio caso». «Quelle motivazioni sono uno scandalo, i giudici mi hanno condannato prevedendo il futuro. Un futuro che non corrisponde affatto a quelle che sono le mie aspettative». (redazione@corrierecal.it)
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