COSENZA Il rischio che l’economia legale possa rimanere ostaggio dei clan è sempre più concreto. Soprattutto dopo una lunga crisi economica, per nulla ancora superata, scatenata dagli effetti dell’epidemia che ha compresso fortemente i consumi delle famiglie e la liquidità di cittadini ed imprese. Riducendo sensibilmente la capacità del sistema produttivo di compiere importanti investimenti. Un aspetto quest’ultimo che ha viceversa avvantaggiato gli attori oscuri dell’economia criminale. Da sempre capaci di incamerare ingenti risorse dalle variegate attività illecite e perciò in grado di riversarle nel sistema economico attraverso azioni di riciclaggio nell’economia legale. Azioni che si traducono in operazioni di infiltrazioni sia nelle imprese maggiormente in difficoltà economica, sia di corruzione dell’apparato amministrativo e politico dei territori dove i clan esercitano il loro controllo.
I dati che si riscontrano dagli oltre due anni di emergenza covid, fanno emergere come le cosche abbiano saputo approfittare della situazione. Disvelando come quel rischio di allargamento del controllo mafioso dell’economia locale sia tutt’altro che remoto. La crescita esponenziale dei cosiddetti “reati spia” ne è la comprova. Nel biennio 2020-2021 le segnalazioni sospette, ci dicono i dati forniti da Libera, hanno raggiunto oltre 252mila casi. Con un’impennata rispetto ai due anni precedenti – che corrispondono al periodo pre-pandemico – del 24%. Così come sono cresciute di molto le interdittive antimafia emesse nello stesso lasso di tempo interessato dalla fase più acuta dell’epidemia. Tra gennaio 2020 e ottobre scorso, sono stati 3.919 i provvedimenti emessi in Italia: un terzo esatto in più, del biennio precedente.
Ed è la ‘ndrangheta con le sue ramificazioni su tutto il territorio italiano ad essere l’organizzazione criminale con maggiore capacità di infiltrarsi nelle maglie dell’economia “sana”. Evidenze che sollevano più di un allarme sul futuro prossimo, in realtà già presente, di un territorio così sensibile alle pressioni e alla presenza dei clan come quello calabrese per l’arrivo di quella massa enorme di risorse soprattutto da Bruxelles. Soltanto considerando le somme del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con quelle del fondo complementare, in Italia già a partire da quest’anno stanno arrivando 240 miliardi di euro. Soldi che si riverseranno sui territori per finanziare soprattutto interventi pubblici. Quelli in cui si sono specializzate le consorterie mafiose.
In primis la ‘ndrangheta, appunto. Un dato su tutti a questo proposito deriva dall’analisi delle interdittive antimafia emesse tra il 2016 e il 2021 nel settore edilizio, cioè quello più sensibile al tema degli appalti pubblici e dei relativi subappalti.
Stando ad uno specifico report realizzato dall’Eurispes e dalla Direzione centrale della polizia criminale, emerge che sono i clan calabresi quelli più attivi. «L’analisi del dato riferito all’incidenza criminale delle singole consorterie mafiose – si legge testualmente nel rapporto – evidenzia, per tutti gli anni e per tutto il macro settore edilizio, la ’Ndrangheta quale principale attore coinvolto nei tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto produttivo delle imprese». Anche nella realizzazione di edifici, il dato non cambia con «picchi nel 2020 e nel 2021», gli anni appunto dell’esplosione massima del Covid. Indice, questo, di come le cosche calabresi più di altre abbiano approfittato del periodo di crisi economica scatenata dalla pandemia.
Passando in rassegna i dati da cui si può comprendere il mondo parallelo costruito dalle cosche, emerge con chiarezza come il territorio calabrese sia quello più esposto alle “infezioni” delle organizzazioni mafiose. Un’infezione che ha particolarmente colpito nel periodo pandemico quando il sistema delle imprese era evidentemente indebolito dagli effetti della crisi economica innescata dalla diffusione dell’epidemia. Ebbene, dai numeri raccolti dall’Unità di informazione finanziaria (Uif) di BankItalia, emerge che le Segnalazioni di operazioni sospette (Sos) nel biennio 2020-2021 in Calabria sono state 7.195 con un incremento del 31% rispetto al periodo pre-pandemico. Al di sopra cioè della media nazionale arrivata in quel lasso di tempo alla già allarmante soglia di crescita del 24%. Si tratta sostanzialmente di quelle operazioni “in odore” di riciclaggio di soldi sporchi per cui gli intermediari finanziari sono obbligati a segnalarne la presenza appunto alla Banca d’Italia. Attività tipiche delle mafie.
E c’è poi il dato ancor più strettamente collegato alle attività della mala costituito dall’interdittiva antimafia. Nei due anni di pandemia i provvedimenti emessi in Calabria hanno raggiunto la quota mostre di 914 interdittive: seconda regione per numero dopo la Campania (929). Con una crescita del 27% rispetto al biennio precedente. Segnale chiaro dell’infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto produttivo calabrese. Un indicatore su cui la Calabria ha sempre “brillato”.
Tra il 2017 e il 2020 secondo i dati elaborati del ministero dell’Interno, su 2.400 misure adottate in Italia 690 si sono registrate in Calabria. Praticamente quasi il 30% del totale. E il dato emerso dalla relazione della Dia, chiarisce che nel primo semestre dello scorso anno la Calabria era sempre in testa nella triste classifica con 134 interdittive su 455 adottate in Italia.
Ed infine la Calabria brilla anche per numero di Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. Dal 1991 ad oggi i provvedimenti adottati hanno colpito 127 enti, complessivamente in questi 32 anni il totale dei Comuni commissariati per infiltrazione mafiosa in Italia è stato di 368, cioè il 34,5% del totale. Con un aggravante, con i commissariamenti degli enti comunali il livello di risposta dello Stato nella lotta alle infiltrazioni mafiose non si è rivelata del tutto appropriata, visto che dalla lettura dell’ultima relazione della Commissione parlamentare Antimafia, i dati tratteggiano una gestione poco sensibile, soprattutto in Calabria, al tema della trasparenza amministrativa.
Numeri e dati che dimostrano la capacità delle cosche calabresi di corrompere, infiltrarsi e riciclarsi nel tessuto socio-economico-produttivo. Un’infezione che potrebbe trovare appunto nuova capacità di diffondersi nell’economia legale grazie alle somme che stanno arrivando dall’Europa.
«Monitorare nella nostra terra, con maggiore rigore, tutte le attività ad alto rischio di corruzione». È l’appello che lancia Giancarlo Costabile, ricercatore Dices che insegna Storia dell’educazione alla democrazia e alla legalità all’Università della Calabria in vista dell’arrivo delle risorse europee in Calabria. Questo perché, secondo il docente, i dati dimostrano «l’estrema permeabilità del sistema economico calabrese al potere mafioso». Da qui i timori, «l’imminente utilizzo di ingenti quantitativi di denaro pubblico» anche perché «la Calabria – sentenzia Costabile – è il laboratorio italiano del capitalismo predatorio».
Professore l’arrivo di ingenti risorse dall’Europa stuzzicano gli appetiti dei clan, quali contromisure sono state adottate per contrastare il fenomeno in un territorio così delicato come quello calabrese?
«Negli ultimi mesi, più attori istituzionali (da Palazzo Chigi al Copasir, dalla Dia al Ministero dell’Interno, soltanto per citarne qualcuno) hanno messo in evidenza il rischio concreto di infiltrazioni mafiose nella gestione dei fondi europei. Il governo, per tali ragioni, ha varato il D.L. 6 novembre 2021, n. 152, recante: “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, con il duplice obiettivo di potenziare il sistema di prevenzione (“modello collaborativo” con il mondo imprenditoriale, potenziamento del ruolo delle prefetture – che però necessitano di adeguati organici) e di attuare rapidamente le misure previste dai finanziamenti europei. È prematuro valutare l’impatto del provvedimento adottato dal governo Draghi così come l’attività complessiva che lo Stato sta predisponendo per limitare il più possibile la penetrazione criminale nell’accesso alla spesa pubblica. Per quanto concerne la Calabria, la situazione è oltremodo complessa. Le analisi del contesto testimoniano l’estrema permeabilità del sistema economico calabrese al potere mafioso e ciò non lascia ovviamente ben sperare per quanto concerne l’imminente utilizzo di ingenti quantitativi di denaro pubblico perché non esiste settore produttivo in cui la ‘ndrangheta non riesca a infiltrarsi. È pertanto fondamentale monitorare nella nostra terra, con maggiore rigore, tutte le attività ad alto rischio di corruzione: dall’edilizia alle energie rinnovabili, allo smaltimento dei rifiuti e alle forniture sanitarie, settori nevralgici che necessitano di controlli (preventivi, in corso d’opera e alla consegna) e di verifiche incrociate».
Le risultanze dell’ultima relazione della Dia confermano la capacità della ‘ndrangheta di infiltrarsi nella macchina amministrativa per condizionare l’andamento degli appalti pubblici. Perché il sistema pubblico non riesce a divenire impermeabile al fenomeno?
«L’Italia è una nazione caratterizzata da una fragile statualità che è l’esito del complesso e contradditorio cammino storico di formazione politico-amministrativa della nostra comunità. Nel Paese premono diversi centri di potere paralleli che tendono a limitare l’applicazione della Carta Costituzionale: le mafie, le logge massoniche coperte e deviate, sono, ad esempio, reti organizzate che erogano servizi nei territori sostituendosi spesso allo Stato. Mafie e massoneria deviata sono in grado di condizionare concretamente la vita della macchina amministrativa dello Stato in tutti i gangli del vivere civile (magistratura, università, sanità, burocrazia, apparato repressivo, sistema mediatico). La corruzione mafiosa sta diventando, come insegna Isaia Sales, il linguaggio delle élite al potere che trovano evidenti convenienze a imporre un “modello sudamericano” di gestione della cosa pubblica per narcotizzare la Costituzione repubblicana e le sue idealità. La progressiva “mafiosizzazione” della burocrazia è funzionale al disegno strategico di destrutturazione dei diritti sociali e di prossimità (lavoro, istruzione, salute), e di produzione sistematica di nuove diseguaglianze territoriali e di classe».
Eppure norme sulla trasparenza degli appalti e misure antimafia, sono presenti nella legislazione. Perché spesso sembrano inefficaci soprattutto in aree ad alto rischio come quella calabrese?
«La Calabria è il laboratorio italiano del capitalismo predatorio. Da noi chi controlla le leve della spesa pubblica, esercita un potere assoluto sui meccanismi della filiera produttiva a tutti i livelli, arrivando a condizionare in modo significativo la quotidianità della vita sociale. L’estrema fragilità del tessuto produttivo rende imprescindibile la sua relazione (organica) con la politica locale (che impone uno schema di assoluta subalternità nell’erogazione di favori ai limiti della legalità). Al di là della retorica e del marketing, la Calabria è una terra profondamente corrotta e il rispetto delle procedure è una questione che interessa pochi. Nella nostra terra, lo Stato della Costituzione è in minoranza».
Nonostante la diversificazione degli affari dei clan ‘ndranghetisti, alcuni reati restano ancorati al passato. Estorsioni a piccole realtà e minacce a cittadini che si ribellano. Perché i clan proseguono con questa strategia, seppure hanno grandi introiti da tutt’altri canali di finanziamento illecito?
«La ‘ndrangheta, nonostante i processi di modernizzazione che l’hanno trasformata in holding mondiale del capitalismo predatorio e della globalizzazione liberista, mantiene il radicamento in quello che Michel Foucault chiama “potere sovrano” che si modella sullo schema del diritto di vita e di morte. È un potere premoderno che si esercita, dice Foucault, come “istanza di prelievo, meccanismo di sottrazione, diritto di appropriarsi delle ricchezze, estorsione di prodotti, di beni, di servizi, di lavoro, di sangue, imposti ai sudditi”. Il potere sovrano è soprattutto questo diritto di prendere, di appropriarsi delle cose in modo illimitato: estorsioni e minacce sono una parte di questo alfabeto premoderno che viene utilizzato per rendere vitale il vocabolario della subalternità e della sudditanza. La ‘ndrangheta agisce come una sovranità feudale che adempie alla funzione di mantenere in piedi una società silente di inginocchiati e rassegnati».
Le indagini hanno dimostrato come le cosche calabresi si siano insediate in molte regioni e anche all’estero. Perché mantengono comunque questi legami così stretti con la terra di origine?
«Le radici della ‘ndrangheta sono in Calabria. E sono così profonde che non possono essere recise nonostante la metamorfosi delle élite criminali in borghesia finanziaria e industriale su scala globale. La ‘ndrangheta a queste latitudini costruisce habitat politici nei territori: è una fabbrica di veleni sociali indispensabili per tenere in vita quella che Umberto Santino definisce “società mafiogena” contraddistinta cioè dall’accettazione morale della violenza e dell’illegalità come mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di un ruolo sociale, che sarebbe impossibile (o difficile) ottenere per altre vie. Una società del genere si fonda sulla diffusa impunità e vede nelle istituzioni qualcosa di lontano, quasi estraneo, un mondo inaccessibile, se non attraverso la mediazione del clientelismo mafioso con la sua fitta rete di legami (zona grigia e colletti bianchi). La ‘ndrangheta ha storicamente esercitato, e continuerà a farlo, questo compito: mantenere questa modellistica sociale che alimenta una sistemica pedagogia del ricatto di cui si nutre il padronato calabrese alleato del peggiore potere dei palazzi romani».
Secondo lei l’attenzione nel contrasto alla ‘ndrangheta da parte del grande pubblico si è affievolito?
«In parte sì. La ‘ndrangheta e le mafie uccidono di meno. Molto di meno rispetto agli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Pino Arlacchi, con il suo libro La mafia imprenditrice scritto nel 1983, aveva visto lontano intuendo il processo di trasformazione che avrebbe portato il crimine organizzato a legittimarsi pienamente nel sistema economico cosiddetto legale. L’impresa che utilizza i capitali mafiosi è un modello di accumulo della ricchezza che sta diventando egemone ovunque. Non è affatto semplice ricostruire il percorso di genesi di un’azienda che nasce con i soldi riciclati del narcotraffico e della corruzione. Non di rado, questo mondo si cela dietro volti (apparentemente) credibili e pienamente inseriti nel tessuto legalitario della produttività ufficiale. Per l’opinione pubblica (manipolata dai media) è sempre più difficile cogliere questo processo epocale di mutamento delle mafie che sono divenute a tutti gli effetti uno dei volti (forse il principale) del nuovo potere mondiale, quello che Toni Negri chiama Empire, cioè Impero. Il rischio è di considerare vinta la partita contro le mafie perché non uccidono più. Ed è un paradosso inaccettabile in considerazione della vitalità globale dei poteri criminali».
E come è cambiato il modo di fare antimafia dopo le stragi degli anni 90?
«Dobbiamo a don Luigi Ciotti e alla nascita di Libera, subito dopo le stragi del 1992, la presenza di un credibile nucleo di resistenza alle mafie nel nostro Paese. Ciotti ha costruito una comunità di donne e uomini in grado di tenere in piedi, e con dignità, la bandiera della lotta e del contrasto culturale ai poteri massomafiosi. In quasi trent’anni di attività militante, Libera ha reso possibile la diffusione di una pedagogia dell’antimafia che ha animato analisi, studi, dibattiti, attività di rigenerazione urbana e riuso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Con Libera si afferma una modalità dinamica di fare resistenza alle mafie, coniugando il valore della memoria come pedagogia della prossimità alla pratica della giustizia sociale quale vettore di un impegno civile a favore della cultura dei diritti costituzionalmente riconosciuti. L’antimafia di Luigi Ciotti si è fatta presidio di cittadinanza attiva e contrasto alla società delle disuguaglianze, percorrendo fin in fondo la strada eretica delle verità scomode ai poteri occulti che tengono il nostro Paese soffocato nella morsa della corruzione».
Cosa occorrerebbe fare di più per contrastare il fenomeno anche a livello di società civile?
«L’antimafia sociale, oggi, deve diventare pienamente una pedagogia del cambiamento politico e sociale. Mauro Rostagno diceva: “Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto”. Fare antimafia nella società globale dell’Impero significa lavorare alla costruzione di una didattica del dissenso verso un modo di concepire le relazioni socioeconomiche schiacciate sul profitto e lo sfruttamento selvaggio di esseri umani e territori. Contrastare le mafie è soprattutto proporre un nuovo modello di società nettamente alternativo a quello del presente che è saturo di violenze, disuguaglianze, (crescenti) povertà di massa, guerre. La lotta alle mafie passa prioritariamente dalla messa in discussione del capitalismo predatorio, della sua borghesia armata e delle democrazie criminali (i narco-stati e gli stati di mafia). Abbiamo bisogno di (ri)costruire una grammatica dei diritti, quella che la Scuola di Barbiana e la pedagogia della liberazione di Paulo Freire individuano come linguaggio universale del riscatto degli Ultimi. Le mafie sono oramai parte integrante del blocco storico del padronato neoliberista: non si combattono con le passerelle (spesso lautamente pagate dallo stesso sistema di potere che si dice di voler attaccare), né con sterili giaculatorie e/o inutili cortei ma con un progetto di ri-territorializzazione (locale e globale) che metta in discussione i rapporti di forza tra i padroni e il popolo dei diseredati e degli sfruttati. L’antimafia nella società globale dell’Impero è soprattutto una pedagogia del riscatto e dell’emancipazione che deve animare la formazione di una nuova (e radicale) soggettività educante in grado di parlare il lessico universale della dignità umana, dello sviluppo eco sostenibile e della pace». (r.desanto@corrierecal.it)
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