VIBO VALENTIA C’è una storia che il gup del processo abbreviato Rinascita Scott considera «rilevantissima» nel racconto della geografia criminale del Vibonese. Risale al 2014 e racconta preoccupazioni e movimenti dei clan locali per il ricovero di Domenico Bellocco nell’ospedale di Vibo Valentia. Uno degli imputati, Gaetano Antonio Cannatà, condannato a tre anni e otto mesi di reclusione, fa «da punto di riferimento per la famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno unitamente a Carmelo D’Andrea anche raccomandandosi (non senza velate minacce) con il dottore che ha in cura» l’esponente della cosca della Piana. Lo scopo è procedere «immediatamente a taluni accertamenti che invece il sanitario avrebbe rimandato all’indomani». Il motivo? «Non fare brutta figura con i rosarnesi», sintetizza il giudice nelle motivazioni. Così, per le esigenze delle cosche, la struttura sanitaria – che nel corso degli anni è divenuta emblema dell’emergenza della sanità in Calabria – deve trasformarsi in un presidio efficiente e azzerare le liste d’attesa.
«Ho dovuto chiamare Carmelo – spiega Cannatà al fratello – andare con lui, perché non gliela faceva altrimenti, ora ci ha promesso che per le tre gliela fa, ora Carmelo gli ha detto alle tre, alle quattro, alle cinque, alle sei, alle sette, alle otto deve fargliela. Io gliel’ho detto che non possiamo fare brutta figura, solo che quello mi ha detto che dobbiamo fargli una cortesia, non deve venire più nessuno a cercarmela perché, ha detto, già sono venuti in dieci! “E dottore”, gli ho detto io “ma voi mi sembra che abbiate capito chi sono, no?”. Ha detto: “Sì, ho capito. Però basta che ne viene uno e non dieci persone!”». Cannatà esige che, per Bellocco, l’ospedale funzioni con la stessa efficienza di una clinica svizzera: «Gli ho detto io “Dottore, devi fargli la risonanza subito!”, gli ho detto “non domani mattina. Che domani mattina? Domani mattina non esiste! Perché domani mattina vuol dire che se ne parla a mezzogiorno!”. “Va bene dai”, ha detto, “il tempo di accendere la macchina, la mettiamo in funzione e gliela facciamo subito”, ha preso e gliel’ha fatto subito».
L’intercessione per uno dei capi della mala rosarnese inorgoglisce Cannatà, che, infatti, ne discute anche con la moglie, «vantandosi dei ringraziamenti che ha ricevuto dai Bellocco, di cui è lui a Vibo il punto di riferimento». «Mancu i cani che mi hanno fatto lì sotto dice nell’intercettazione – Grazie, grazie di tutto. Di qualsiasi cosa la famiglia… tutta la famiglia Bellocco è tutta a disposizione. A me hanno come riferimento qua… questi pensi che si dimenticano? Questi non si dimenticano… Quando gli fai tanto questi non si dimenticano. Che poi tu devi pensare che questo è il figlio di Mario. Mario Mario è il fratello di Umberto, di Gregorio, Pino, di Michele, di Giulio. Sono nove fratelli, sono…».
L’amicizia con il clan del Reggino viene confermata dalle indagini quando Cannatà «viene immortalato a far visita a Bellocco e ai suoi familiari anche unitamente a Vincenzo Barba “il Musichiere” il 18 luglio 2014». Quello stesso giorno, «riferisce alla moglie che, a fronte dell’ulteriore richiesta di interessarsi con i sanitari perché inserissero in cartella clinica una qualche annotazione che potesse essere successivamente spesa per ottenere benefici in caso di arresto, ha rassicurato i rosarnesi con le seguenti, eloquentissime, parole: “Siamo tra di noi, gli ho detto non è che siamo estranei… il problema non esiste! Che io lunedì vado a trovare a casa il primario per questo fatto qua».
Un dialogo tra Cannatà e Carmelo D’Andrea è la prova indiretta del legame di Bellocco con un’altra cosca dell’arcipelago ‘ndrangheta della città di Vibo Valentia. Dall’intercettazione tra i due, infatti, «emerge come anche l’odierno imputato (nel processo in abbreviato Rinascita Scott, ndr) Domenico Camillò, il più autorevole esponente della cosca Pardea Ranisi, stia riverendo i Bellocco con visite mattutine al loro congiunto (a ulteriore dimostrazione che si tratta di interessamenti che non avvengono a titolo personale bensì nell’ambito di rapporti di amicizia delle ‘ndrine vibonesi con i Bellocco)».
La captazione, però, è per il giudice la prova degli «ottimi rapporti di Cannatà anche con la cosca Mancuso di Limbadi». Proprio nel mese di luglio del 2014 il boss Luigi Mancuso si rende irreperibile. Due giorni dopo gli inquirenti registrano il dialogo in cui Cannata chiede all’amico «Ma Luigi Mancuso è latitante? E come mai?». «Erano andati a fargli una perquisizione – è la risposta – eh… però siccome ha visto troppe macchine, che sono andate una decina di macchine, gli sembrava che volevano arrestarlo e si è gettato latitante». Cannatà non condivide la scelta di Mancuso: «Dio io che cazzo si è buttato a fare latitante? (…) Che se arrestano pure a lui mi pare che stavolta tracollano».
Di quella latitanza eccellente, Cannatà discute ancora, ma con un altro interlocutore il successivo 14 luglio. «In particolare – appunta il giudice – del fatto che Luigi “sta venendo lui personalmente”, pur essendo in quel periodo “latitante” (in realtà tecnicamente solo irreperibile); che hanno ospitato “Luni” (all’evidenza Pantaleone Mancuso, in quel periodo effettivamente latitante) e che – frase proferita proprio da Cannatà – “sono dei nostri”».
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