REGGIO CALABRIA Tanti i «non lo so» e i «non ricordo» ascoltati questa mattina durante l’udienza del processo d’appello “‘Ndrangheta stragista” in corso a Reggio Calabria, che vede imputati il boss palermitano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro, condannati entrambi all’ergastolo in primo grado per il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.
Ad essere ascoltato, come “testimone assistito”, dal procuratore generale Giuseppe Lombardo, il collaboratore di giustizia Annunziatino Romeo, «il factotum di Rosario Barbaro», cugino e «uomo di fiducia di Saverio Morabito». Romeo è stato arrestato nel 1990 per traffico di droga in Lombardia e nel febbraio 1995 ha iniziato a collaborare con la giustizia da detenuto. «Ho cancellato tutto e non voglio sapere più niente di nessuno», ha affermato Romeo, che ha anche detto di non essere «un uomo di ‘ndrangheta» e di non aver mai avuto a che fare con uomini di ‘ndrangheta. Dichiarazioni che vanno nettamente in contrasto con quanto registrato, in particolare, in un verbale che risale al 16 maggio del 1996, rilasciato al magistrato della Dda di Reggio Calabria Roberto Pennisi. Un verbale in cui Romeo aveva raccontato dei legami della ‘ndrangheta di Platì, che andavano decisamente oltre i confini provinciali e regionali per radicarsi anche in regioni come la Lombardia e il Piemonte. Intrecci tra ‘ndrangheta, massoneria, magistratura e politica che Lombardo ha cercato di ricostruire, – non con poche difficoltà – attraverso il verbale di Romeo, davanti al collegio presieduto da Bruno Muscolo. Secondo il procuratore generale il collaboratore di giustizia sarebbe stato «“Invitato” a dimenticare tutto dagli esponenti di spicco della ‘ndrangheta di Platì» dopo aver rilasciato un’intervista a un programma televisivo.
«Il cugino di Paolo De Stefano (l’avvocato, ndr) Domenico Papalia e Totò Delfino sono i tre cervelli della ‘ndrangheta in Calabria». Il racconto fatto da Annunziatino Romeo nel ’96 è denso di particolari e fotografa un momento molto preciso della storia della ‘ndrangheta con il proprio vertice nel paesino aspromontano di Platì. Barbaro, Agresta, Trimboli e Papalia. Sono queste le famiglie a cui Romeo attribuisce il potere nella roccaforte dell’organizzazione criminale, che nel 1996 era «il “locale” più forte in Calabria». Ma ai Papalia viene attribuito «un livello superiore». «Domenico Papalia – arriva ad affermare Romeo – è il rappresentante nazionale della ‘ndrangheta» e «suo fratello, Antonio Papalia è il rappresentante di tutta la ‘ndrangheta in Lombardia». «Cose che in pochi a quei tempi conoscevano», ha affermato in aula Lombardo. Ma il collaboratore di giustizia va anche oltre e nel verbale del ‘96 svela alleanze e dinamiche decisionali. Decisioni che «si prendevano nelle riunioni che avvenivano una volta al mese ad Africo». Nel verbale di Romeo si faceva anche riferimento all’«eliminazione» di un sindaco. «Si parlava di Domenico De Maio?», ha chiesto Lombardo riferendosi al primo cittadino di Platì ucciso in un agguato nel 1985. «Non posso saperlo», la risposta di Romeo.
Nel racconto fatto da Romeo 26 anni fa emergono le figure di don Giovanni Stilo e Antonio Delfino. Di Stilo, parroco di Africo, Romeo afferma che insieme al boss Giuseppe Nirta – che «a livello di appoggi politici e in magistratura era molto forte» – «erano i massoni e decidevano le strategie». «La ‘ndrangheta è il braccio armato, la massoneria e le persone influenti come Totò Delfino sono il cervello. Sono loro che manovrano, la Camera ha il suo tornaconto». Delfino, invece, era fratello del generale Francesco Delfino. Giornalista e impegnato anche in politica, secondo il collaboratore di giustizia, era colui che definiva le strategie, ma non solo. «Un massone – mette a verbale Romeo – da cui i Barbaro prendono ordini» e che «voleva fare di Platì l’epicentro della ’ndrangheta». Nel verbale Romeo racconta anche dei legami con i Piromalli e di un «filo diretto con i De Stefano», quando si riferisce ai contatti delle cosche Barbaro e Papalia con gli ambienti giudiziari. Romeo aveva anche riferito di contatti con il Tribunale di Locri attraverso l’intercessione di Delfino. Contatti con la magistratura che avrebbero permesso alle cosche di “aggiustare” alcuni processi. «Sapevate in anticipo delle indagini che vi riguardavano?», è stata la domanda del procuratore Lombardo a Romeo, che ha continuato a non rispondere.
«Farò i dovuti accertamenti per capire se è stato minacciato dalla ‘ndrangheta di Platì», ha affermato il procuratore Lombardo rivolgendosi a Romeo al termine della disamina. Nel corso dell’udienza Lombardo ha fatto anche riferimento a un’intervista rilasciata dal collaboratore di giustizia e andata in onda su un’emittente televisiva. «Lei ha rilasciato un’intervista non autorizzata dove ha svelato l’esistenza di un livello superiore e per questo è stato “invitato” a tacere», ha detto Lombardo. Una testimonianza, quella resa questa mattina da Annunziatino Romeo, considerata, dunque, non “genuina”. «È stato “invitato” a dimenticare tutto dagli esponenti di spicco della ‘ndrangheta di Platì», ha ribadito Lombardo. (redazione@corrierecal.it)
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