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Il ricordo

«Lombardi Satriani: la casa, il paese, il mondo»

Per conoscere Luigi Maria Lombardi Satriani, prima di ogni cosa, occorreva saperne leggere lo sguardo. Capitava, a volte, che mentre il suo discorso incedeva come sempre lineare, i suoi occhi si a…

Pubblicato il: 05/06/2022 – 11:14
di Fulvio Librandi e Vito Teti**
«Lombardi Satriani: la casa, il paese, il mondo»

Per conoscere Luigi Maria Lombardi Satriani, prima di ogni cosa, occorreva saperne leggere lo sguardo. Capitava, a volte, che mentre il suo discorso incedeva come sempre lineare, i suoi occhi si astraessero e la linea del suo sguardo si rivolgesse altrove, magari su altri mondi immaginati, magari verso di sé. In genere erano il suo eloquio ricercato, la raffinatezza dei modi, la sua delicata autorevolezza a calamitare l’attenzione degli interlocutori, sia quando parlava in pubblico – era sapiente ed era un mattatore naturale –, sia nelle ordinarie situazioni della quotidianità. Era però il suo sguardo, erano i suoi occhi profondi che, nell’intesa anche di un solo attimo, rendevano agli amici immediatamente chiaro il suo giudizio sulle cose.
Lombardi Satriani era intellettualmente anarchico, il suo pensiero sempre eterodosso, sempre teso a varcare qualche limite. Soffriva le regole, anche rispettandole. La sua incontenibile curiosità lo ha portato a battere sentieri diversi ma, valutata nel suo insieme, la sua produzione scientifica appare non solo organica, ma anche eticamente improntata a un sistema di fedeltà culturali.
Aveva appena ventidue anni quando con Mariano Meligrana fondò una rivista dal titolo “Spirito e tempo”, poi “Voci” (rifondata in seguito nel 2005 con l’editore Pellegrini e nuovi collaboratori). Con la parola “Spirito” intendeva la tensione all’assoluto, il debito che, nel vivacissimo ambiente intellettuale napoletano, i due giovani avevano contratto con le filosofie idealistiche e con l’esistenzialismo. Il “tempo” era invece la congiuntura della vita reale, era il tempo della storia di ogni giorno, in cui si dipana la vicenda dell’uomo. L’avventura intellettuale di Lombardi Satriani si fonda su questo limen, su questa scelta cruciale: la sua riflessione, che precedentemente affrontava l’ontologia del dolore, la dimensione assoluta della sofferenza, ora si apriva alla sofferenza incarnata nelle persone che ogni giorno si misurano con la vita quotidiana. Scriverà poi esplicitamente: “La tensione era di tipo ‘universale’; ma il quadro di riferimento era, per Mariano Meligrana e me, la Calabria, i nostri paesi, in quanto vi eravamo nati, ma anche in quanto li avevamo scelti, vi eravamo ritornati, punti di una topografia realistica e di una geografia della memoria, e in essi – pur con interruzioni, partenze e continui ritorni – intendevamo vivere, anche se nei nostri paesi la vita è più aspra e tutto è più faticoso”. È il ritorno a casa; anche ad una casa dell’anima. “Far la guardia a un paese / ché il mondo non venga / e le case spariscano / è un compito antico”, è questa la prima strofa di un componimento in versi in cui Lombardi Satriani riconosce il debito che ha contratto con la sua terra d’appartenenza, che intendeva ripagare, e che ha abbondantemente ripagato.
Lombardi Satriani cresce in una casa ricca di storia e di memorie, costantemente a contatto con il rispettato zio Raffaele, demologo appassionato e prolifico, che per oltre mezzo secolo si era dedicato allo studio delle tradizioni popolari. Corrado Alvaro sosteneva che non bisogna piangere di fronte a una civiltà che scompare, ma che è invece necessario “trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”, e Raffaele Lombardi Satriani era consapevole dell’importanza di questo compito, che discuteva con una rete di intellettuali che si occupavano di cultura popolare. La sua casa era, prima ancora che un deposito fisico di memorie, un vivaio di voci, un laboratorio in cui si apriva, per una storia silente, per una voce fino allora senza timbro, la nuova e rivoluzionaria possibilità di essere ascoltata.
Luigi Lombardi Satriani vive in questa casa e delle cose che questa casa fa vivere. Frammenti di giornate, incontri, letture, colloqui con persone che passavano da un luogo che era riferimento per una rete culturale. Negli anni lo studioso sceglierà come temi della sua ricerca quegli argomenti che erano diventati suoi per inculturazione indiretta, per averli respirati, come si respira l’aria, nella casa di San Costantino. Ad esempio, si soffermerà criticamente sui racconti popolari, sulle leggende plutoniche, sulle raccolte paremiologiche; tornerà con strumenti diversi, e più volte, sulla dimensione del silenzio nella cultura folklorica, a completare nel tempo idealmente il lavoro dello zio Raffaele, che aveva dedicato la vita a “dare voce ai muti della storia”. La patria culturale di Lombardi Satriani, i cui pezzi sono disseminati nelle sue innumerevoli pubblicazioni, negli anni è diventata sempre più ampia e sempre più composita, ma la casa di San Costantino è il punto della mappa che sembra indicare stabilmente una direzione di riferimento, quale che sia la meta del viaggio. Fu lui stesso a dirci, l’ultima volta in cui ci siamo incontrati, che il suo axis mundi coincideva esattamente con la posizione di una poltrona posta tra due finestre della casa di San Costantino, da cui evidentemente poteva affacciarsi sulla sua intera vita.
Dare voce a chi voce non aveva era un impegno e un programma politico e culturale. Gli studi di Lombardi Satriani germogliano all’interno di una temperie culturale del tutto nuova che si genera nel secondo Novecento. È il periodo in cui gli studi sul folklore ricevono un forte impulso in seguito alla pubblicazione di alcune pagine dei Quaderni, nelle quali Gramsci riflette sul ruolo delle tradizioni popolari esaminate criticamente in quanto fenomeno centrale dei rapporti tra le classi. Nell’ottica gramsciana, ciò che qualifica un tratto culturale come folklorico non è l’arcaicità, né la semplicità o la tradizionalità, ma la sua collocazione nelle dinamiche dei rapporti di potere. Non più, quindi, ammasso di elementi decontestualizzati, la tradizione deve essere studiata come visione del mondo e della vita di un determinato strato della popolazione che si contrappone alla parte dominante. Occorre leggere queste parole alla luce degli studi del padre fondatore dell’etnologia italiana, Ernesto de Martino, il quale aveva sostenuto che i saperi della tradizione popolare, compresi i riti magici, costituivano una modalità di protezione della propria presenza nel mondo e una narrazione possibile, seppure fantastica, del proprio male, da cui poteva discendere la difesa non della presenza fisica, ma della presenza interiore. I riti potevano ora essere studiati come uno strumento per gestire la vita quando la vita diventava ingestibile. La nuova idea critica del folklore sarà dunque basata sulla contrapposizione tra cultura egemone e cultura subalterna, paradigma che sarà lungamente cogente negli studi demo-antropologici italiani. In questo quadro culturale, la riflessione di Lombardi Satriani, con i volumi Il folklore come cultura di contestazione, del 1967, e Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, 1968, si inserisce in un dibattito che non è riferibile soltanto allo specifico delle discipline demo-antropologiche ma che riguarda più complessivamente il mutamento paradigmatico dei saperi del tempo. Di certo fu nuovo il suo modo di guardare al folklore come a una cultura di contestazione, a quei saperi del popolo che, per il solo fatto di esistere, potevano essere letti come contestazione dei valori delle “classi egemoni”. Al contempo, e non contraddittoriamente, Lombardi Satriani rifletteva sulla potenziale funzione narcotizzante del folklore che, in determinate condizioni, sembrava favorire l’accettazione dei saperi delle classi dominanti. In anticipo sui tempi, lo studioso avvertiva il rischio che il folklore, mitizzato, non affrontato criticamente, divenisse terreno di incursione per neoromantici (coniò l’espressione folkmarket) e oggetto di uno sterile rimpianto per un buon tempo antico mai esistito. Il dibattito attuale conferma la sua capacità di antivedere i processi sociali. È da tenere presente che in questo periodo il Sud entrava nel dibattito nazionale solo tramite le inchieste socio-economiche scaturite sotto l’impulso della questione meridionale o tramite le raccolte di tradizioni popolari a cui insigni demologi avevano lavorato a volte per l’intera vita. L’incapacità di far convergere queste due prospettive, la divisione tra l’economia, la cultura e la vita, comportava che le persone reali diventassero nella narrazione figure stereotipe, determinate nel loro comportamento da una tradizione senza tempo, di fatto riconducibile a un insieme di superstizioni. Rimanevano invece non indagate le strategie per l’esistenza all’interno del mondo folklorico, i saperi pratici dispiegati dagli uomini per contrapporsi alla crisi di senso a cui si è maggiormente esposti quando si è in condizione di precarietà materiale.
Questa prospettiva critica, che Lombardi Satriani ha autonomamente rimodulato, è un riferimento, anche etico, che gli ha consentito di leggere in profondità il senso dei luoghi e il senso dei tempi che ha indagato. Esemplare è l’analisi della costruzione culturale dell’ambivalenza della morte nel suo libro forse più noto, Il Ponte di San Giacomo, vincitore del Premio Viareggio nel 1983, scritto anche questo insieme a Mariano Meligrana, in cui vengono esplorate le modalità possibili dell’interazione tra vivi e morti, nonché la radicale ambivalenza della morte. In questo, ma anche in volumi successivi, Lombardi Satriani ci ha spiegato come le forme rituali, anche quando davvero strane, siano un modo di sovrascrivere il dolore con un linguaggio di senso, di arginare l’assurdo, di proteggersi dal rischio di sradicamento. Il titolo del libro rimanda a un mito secondo il quale, dopo la morte, l’anima del defunto compie un viaggio per raggiungere il “ponte di san Giacomo”, un passaggio spesso quanto un capello che può attraversare solo un’anima leggera, non gravata da peccati. Si tratta di un libro etnograficamente documentato, metodologicamente corretto, la cui lettura è di un fascino assoluto. È un altro lavoro su un limite dell’umano, nel quale l’aldilà viene analizzato in quanto provincia di questo mondo, come uno spazio ordinato, in cui la memoria continua a essere una forma di vita residua, mentre il dialogo tra i due mondi – anche quando è un monologo mascherato – è una protezione rituale contro i pericoli insiti nella devastante nostalgia dei superstiti. Altri temi avrebbe poi affrontato Lombardi Satriani nel corso del suo un cammino erratico, la città, la malattia, le forme del nuovo folklore, ma di fatto resterà costante il suo interesse nell’affrontare la dimensione dello straordinario nella vita quotidiana delle persone; i temi, quindi, legati specificamente alle logiche del suo sguardo.
Più che una scuola, quello di Lombardi Satriani è stato un mondo, un polo che ha attratto studiosi diversi, che in modi diversi hanno condiviso una prospettiva, un lessico, un ethos. In questi ultimi decenni sono moltissimi coloro che hanno contratto con lui un debito intellettuale, a volte ripagato con monete diverse, e sono molti quelli che hanno tenuto fede ad alcune sue indicazioni di viaggio: la scelta della strada più accidentata, l’esercizio sistematico di un pensiero critico, l’idea che “guardare” è in sé un fare e, quindi, una responsabilità.
Ciò che oggi è un sapere diffuso, ciò che consente a noi che insegniamo antropologia culturale di poter dare per scontato il rispetto critico che si deve alle diverse culture, o che i riti possono avere un’efficacia simbolica, o il senso profondo di alcune logiche tradizionali, ciò che oggi è acquisizione condivisa, è frutto di un lavoro difficile portato avanti da molti studiosi, è frutto di indagini e di proposte interpretative, di organizzazione culturale, dell’impegno a guadagnare, giorno dopo giorno, il maggior numero di persone a una prospettiva critica. Di questo processo Lombardi Satriani è stato protagonista, sia come ricercatore che ha prodotto alcuni dei testi di riferimento di questa disciplina, sia come catalizzatore di intelligenze diverse, essendo nel tempo riuscito a formare scuola e a operare sul territorio in una miriade di iniziative.
Molti – studiosi, studenti, appassionati– sanno di aver contratto con lui un debito. Nella lettura di saggi antropologici, ma anche di corsivi di quotidiani, nella fruizione dei diversi media, la persona attenta riconosce spesso un’espressione, un concetto, una frase che rimandano agli studi di Lombardi Satriani, segno che una specifica tensione critica è passata anche nel linguaggio. Nell’impartire il suo insegnamento, l’antropologo di San Costantino non occultava mai la sua soggettività, non si nascondeva dietro la sua scrittura fine, sostenendo sempre che ogni discorso sulla sofferenza, ogni lettura del modo in cui la gente mette in forma il dolore, è sempre un discorso sulla propria sofferenza, sull’esperienza del proprio dolore.
La sua opera, nel complesso, ha concorso a determinare e a consolidare una nuova prospettiva nelle scienze demo-etno-antropologiche, favorendo una nuova percezione della cultura popolare. In alcuni contesti – in Calabria certo, ma non solo – le sue analisi hanno influito decisivamente sul modo di rappresentare e narrare le cose del folklore e, non meno, sull’autorappresentazione dei protagonisti di determinati mondi. Ha contribuito decisivamente a promuovere le letture da Sud del Sud. Ciò che oggi è un sapere diffuso, ciò che consente a chi insegna antropologia culturale di poter, di norma, dare per scontato il rispetto critico che si deve alle diverse culture, o che i riti possano avere un’efficacia simbolica, o il senso della cogenza di alcuni logiche tradizionali, è frutto di un lavoro difficile portato avanti da studiosi come Lombardi Satriani; è l’esito di indagini e di proposte interpretative, dell’organizzazione culturale di chi ha provato ad avvicinare il maggior numero di persone a una prospettiva demo-antropologica realmente critica.
Lombardi Satriani ha declinato il suo impegno in modi diversi. È stato un caposcuola e si è speso per favorire la crescita delle materie etno-antropologiche nell’università italiana, formando giovani e favorendo l’istituzione di insegnamenti di antropologia in diversi atenei. Molti di noi con Lombardi Satriani hanno potuto immaginare una strada e percorrerla, hanno avuto sostegno culturale e cura. Ma l’impegno, nella sua ottica, è soprattutto testimonianza. Lontano dagli studiosi che per metodo evitano di farsi coinvolgere sul campo, Lombardi Satriani ha sostenuto che l’antropologo deve “prender parte quando necessario e rifiutare i privilegi della neutralità”, e che il mandato originario dell’antropologia è proprio in quello “stare con”, “stare là”; un prendere la parola che configura la disciplina, anche, come una pratica di libertà.
Abbiamo parlato a lungo tra noi negli anni, e abbiamo avuto il privilegio di poterlo fare anche negli ultimi giorni della sua vita. Le forze venivano meno, a volte la voce si abbassava molto, la sua sete di vita era però intatta, la sua intelligenza vigorosissima, la sua ironia impareggiabile. Insieme abbiamo programmato i libri da completare questa estate e poi quelli per gli anni a venire. Solo ogni tanto lo sguardo si sperdeva in qualche ricordo, in qualche nostalgia, forse in qualche dispiacere, facendo brillare negli occhi quella luce che conoscono solo quelli che gli sono stati realmente vicini, la luce della tenerezza. Nessun addio maestro, il dialogo continua.

*docente Etnoantropologia Unical **docente Antropologia culturale Unical

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