VIBO VALENTIA «La ‘ndrina dei Ranisi (Camillò-Pardea-Macrì) opera nella città di Vibo Valentia ed è nata da una recente scissione della cosca Lo Bianco-Barba». La sentenza del processo Rinascita Scott celebrato con il rito abbreviato si inoltra nell’arcipelago ‘ndrangheta e ne analizza contrasti, riavvicinamenti e successive separazioni. I Ranisi sono uno degli esempi dell’irregolarità nel panorama mafioso: prima cedono il proprio predominio alla cosca Lo Bianco-Barba, «divenendone un gruppo ancillare». Poi si fondono con gli “avversari” «nel 2012 in un “Buon ordine”, senza che tuttavia vengano a risolversi le antiche rivalità, tanto che già nel giro di pochi anni (2016-2017) riaffioreranno nuove spinte autonomistiche con la creazione di numerosi sottogruppi tutti accomunati dall’avversione verso i Lo Bianco», cosca egemone nel capoluogo.
La madre di tutte le scissioni è quella che si fa ricondurre alle iniziative di Andrea Mantella, oggi pentito, un tempo a capo del gruppo degli “azionisti” dei Lo Bianco-Barba. «Risentito per non aver ottenuto una cospicua parte della “bacinella” per pagare i propri avvocati», non più disposto «a tollerare la subalternità alla cosca Mancuso, alla quale riversavano il 50% delle attività estorsive», Mantella attira a sé un gruppo che diventa «una frangia sempre più autonoma, arrivando finanche a progettare l’eliminazione di Vincenzo Barba e Carmelo Lo Bianco Piccinni» ed entra in rotta di collisione con gli stessi Mancuso, trovando alleati potenti nei Bonavota di Sant’Onofrio, anch’essi decisi a contrastare lo storico clan di Limbadi. È forse il momento in cui la geopolitica dei clan può prendere una nuova direzione e mettere in discussione rapporti di forza consolidati da decenni. Mantella, però, finisce in carcere. E oggi, dai collegamenti in località protette, contribuisce a raccontare la storia di quelle lotte intestine.
Una volta arrestato l’aspirante boss scissionista, nasce una ‘ndrina autonoma con a capo Domenico Camillò, oggi 83enne e “tentato” collaboratore di giustizia il cui contributo è stato giudicato non affidabile dalla Dda di Catanzaro. Nel 2012 arriva il momento del “Buon ordine” formato assieme ai Lo Bianco-Barba, intesa che sarà messa in discussione negli anni successivi dalle nuove leve dei Ranisi.
Michele Camillò, figlio del presunto “capo” del Buon Ordine, e Bartolomeo Arena sono i pentiti considerati centrali nella ricostruzione degli interessi criminali della cosca. Arena, in particolare «è una delle figure più carismatiche» del gruppo. È lui a offrire riscontri utili a «corroborare» gli «straordinari risultati» dell’inchiesta Rinascita Scott. C’è, però, un’intercettazione che il giudice dell’udienza preliminare considera centrale nella descrizione dei precari equilibri criminali della città di Vibo Valentia. È un dialogo in cui Mommo Macrì, considerato una delle figure più carismatiche del gruppo dei Ranisi, invita lo stesso Arena, Francesco Pardea, Michele Pugliese Carchedi «e tutti i sodali a rompere gli indugi scatenando una guerra contro Paolino Lo Bianco e tutto il suo gruppo».
«Ma tu sai che squadra come a noi non ce n’è! Che siamo noi coglioni… che voi non vi mettete in testa che siamo i più forti! Perché siamo ragazzi… E questi che hanno piede (…) Vibo… al paese loro sono sistemati, ma sono tutti vecchi… allora… loro sono deboli perché hanno i soldi… e già sono deboli… Siamo arrivati e ce ne fottiamo di Vibo! Noi sai che ci vuole che gliela impostiamo». L’obiezione è che ci sono alcuni che ancora credono nei «vecchi». Ma Macrì non ha dubbi: «Ragazzi qua… qua noi siamo i più forti! Perché siamo forti, perché non abbiamo niente (…) E siamo giovani! Siamo giovani! Io sono arrabbiato in questo modo perché io non ho niente! Che sono nato in una casa popolare». In questa sorta di discorso motivazionale ai suoi sodali, Macrì cerca di spiegare che l’avversario (secondo il gup il riferimento è ai Lo Bianco, ndr), «se lo sparano e io ti sparo muore o non muore?» e poi punta sui numeri: «Siamo venti… trenta… venti siamo tutti uniti… per dirti venti… venti».
Sarebbe la “fame” a spingere i giovani Ranisi al vertice dei clan vibonesi, più agguerriti (nella “presentazione” affidata a Macrì) rispetto ai clan storici, che hanno già la pancia piena («sono deboli perché hanno i soldi»). C’è anche un altro «straordinario riscontro» che il giudice ricorda nella sentenza. Si tratta del sequestro, avvenuto nell’ottobre 2017 di due manoscritti a carico di Giuseppe Camillò, figlio dell’anziano Domenico e fratello del collaboratore Michele, dai quali emerge, in estrema sintesi, come il precedente 8 aprile nell’ambito di una rituale cerimonia, gli fosse stata concessa la dote del “Trequartino”». «A nome di Gasparre, Melchiorre, Baldassarre e Carlo Magno – recita il documento – che con il suo cavallo bianco distrussero tutti i nemici del suo regno, con una mantella sulle spalle e a fianco uno spadino formarono il trequartino». Un altro segnale che il “gruppo” si stava organizzando. E, nelle intenzioni di Macrì, avrebbe potuto (e dovuto) scatenare una guerra. (p.petrasso@corrierecal.it)
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