ROMA Alle 11 e 19 del 4 maggio scorso il Consiglio superiore della magistratura si è riunito in seduta plenaria per scegliere il nuovo capo della Direzione nazionale antimafia, la super Procura, ideata da Giovanni Falcone che, sulla carta, ha il compito di coordinare tutte le indagini contro la criminalità organizzata.
In lizza ci sono tre magistrati: Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, Giovanni Melillo, procuratore di Napoli e Giovanni Russo, candidato interno alla Dna. Tutti pensano che si arriverà al ballottaggio tra Gratteri e Melillo e, invece, il 4 maggio viene eletto Melillo con 13 voti contro i sette a favore di Gratteri.
«Temo che questa scelta potrà apparire come una bocciatura del dottor Gratteri – dice il magistrato Nino Di Matteo – e anche agli occhi del contesto criminale mafioso questa scelta avrà il significato di una pericolosa delegittimazione. Il Csm non doveva ripetere delle scelte infelici che nel passato hanno contraddistinto vicende relative a Giovanni Falcone e ad altri magistrati particolarmente esposti».
Si defila rapida e cerca di schivare le domande del giornalista di Report la consigliera del Csm Elisabetta Chinaglia. Dice di avere votato il dottore Melillo «per le ragioni che sono esplicitate nella delibera». Scappa davanti alle telecamere di Rai3 anche Loredana Micchiché: «Non ho niente da dire grazie». Davide Ermini, vicepresidente del Csm dice di non avere votato «perché non mi sono mai intromesso nelle scelte».
Report incontra Gratteri a Lamezia, a margine di un incontro in una scuola. Il Procuratore di Catanzaro ammette che si aspettava la bocciatura del Csm. Dice che Melillo è un bravo procuratore e un bravo organizzatore. «Detto questo – aggiunge – se ho fatto domanda vuol dire che ritenevo di essere capace di fare una rivoluzione». Nel suo pensiero «la Dna e le Procure distrettuali sarebbero diventate una sola procura in Italia. Avrei fatto un terremoto».
Il 4 maggio è accaduto un fatto insolito: hanno votato gli alti magistrati della Cassazione che di solito si astengono. Questa volta hanno preso la parola Pietro Curzio, primo presidente della Cassazione, e il procuratore generale Giovanni Salvi. Tutti e due annunciano il voto in favore di Melillo.
«La persona che verrà designata a questo ufficio deve avere il numero di voti più largo possibile», dice Curzio. «Il mio voto per Melillo è un voto veramente convinto», dice Salvi nel corso del proprio intervento.
Secondo Salvi la partecipazione al voto sua e di Curzio non è un fatto inusuale e dice che hanno votato Melillo per la sua esperienza soprattutto nel campo dell’antiterrorismo.
Il giornalista Giorgio Mottola chiede come facesse Curzio a sapere che Melillo avrebbe avuto «il numero di voti più largo possibile». Salvi afferma che gli altri consiglieri avessero già fatto le loro dichiarazioni di voto. Ma non è andata così: Curzio parla prima che gli altri consiglieri abbiano fatto le loro dichiarazioni di voto. E la stranezza viene recepita da altri consiglieri del Csm.
Tanto che da far intervenire Stefano Cavanna il quale, dicendosi turbato dalle parole del primo presidente, afferma: «Sostenere che bisogna supportare con il più ampio numero di voti un candidato, mi fa quasi pensare che si sappia già quale sarà questo risultato».
I magistrati della Cassazione e Melillo fanno parte della stessa corrente. Lo fa notare Luca Palamara, uno che di autopromozioni e promozioni in magistratura ne ha viste tante. Oggi è accusato di corruzione ed è stato radiato dalla magistratura perché avrebbe pilotato decine di nomine al Csm. In attesa di una sentenza parla e scrive.
Secondo Palamara le correnti Unicost e Area avrebbero raggiunto un accordo che aveva compreso anche i due alti magistrati della Cassazione. Eugenio Albamonte, segretario generale di Area, cerca di smarcarsi dicendo che i due candidati, Gratteri e Melillo, avessero due profili diversi.
Melillo, tra l’altro, è stato capo di gabinetto del ministero della Giustizia su nomina politica. Un incarico che potrebbe avere pesato sulla sua elezione.
Su questo punto Salvi afferma che «entrambi i candidati avevano profili da questo punto di vista». Salvi ricorda la proposta di nomina di Gratteri a ministro della Giustizia fatta da Renzi nel 2014. Certo, c’è una bella differenza tra un incarico ricoperto (quello di Melillo) e uno solo proposto e sfumato (quello di Gratteri). E qui si apre un nuovo capitolo sull’avversione di determinati poteri della magistratura contro uno che non è mai appartenuto a nessuna corrente come Gratteri.
«Bisognerebbe spiegare chi è andato da Napolitano a dirgli di non farmi ministro», dice Gratteri. Il 21 febbraio 2014 la porta dietro la quale Renzi e Napolitano discutono del nuovo esecutivo resta chiusa per più di due ore. Alla fine il nome di Gratteri viene depennato dalla lista dei ministri.
Secondo Luca Palamara che Gratteri divenisse il referente tra il mondo della magistratura e la politica non poteva essere accettato dai tanti procuratori che volevano avere un’interlocuzione diretta con il Quirinale.
Una conferma che arriva anche da Renzi che lo ha scritto in un libro: «Magistrati come il procuratore della Repubblica di Roma, leader di varie correnti della magistratura, giudice eletto in Parlamento con alte responsabilità fecero arrivare al Quirinale la loro avversione totale all’ipotesi Gratteri». In particolare, all’interno del Quirinale, a Renzi sarebbe stato riferito il nome di Pignatone. (redazione@corrierecal.it)
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