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Il boss del “Buon Ordine” di Vibo Valentia che si finse pentito

Il tentativo di collaborazione di Domenico Camillò. Le amnesie sul suo grado di ‘ndrangheta («ho lo “sgarro”, anzi no, la “santa”»). E il coinvolgimento negli affari dei clan. «Aiutò a raccogliere …

Pubblicato il: 18/06/2022 – 7:03
di Pablo Petrasso
Il boss del “Buon Ordine” di Vibo Valentia che si finse pentito

VIBO VALENTIA Un padre partito in Russia per la guerra quando aveva soltanto otto mesi, la frequentazione con Rosario Pardea, «capo società di Vibo Valentia». E poi l’ingresso della ‘ndrangheta, «con un rito formale», all’eta di 20 anni «o anche più». Domenico Camillò, 83 anni e una condanna (15 anni e 4 mesi) per associazione mafiosa nel rito abbreviato processo Rinascita Scott, è un tentato pentito. Per dirla con le parole del giudice, «aveva avviato un percorso di collaborazione in realtà non voluto perfezionare dagli stessi inquirenti in ragione dell’atteggiamento serbato in quel frangente». Parlava, l’anziano considerato uno dei capi del “Buon Ordine” di Vibo Valentia, cercando di «edulcorare e minimizzare il proprio ruolo all’interno del sodalizio».
Un esempio: «Sono stato battezzato come “picciotto” e poi diventai “camorrista” e successivamente ricevetti lo “sgarro”, all’incirca all’età di 35-40 anni. (…) L’ultima dote che ho ricevuto è stata quella dello “sgarro”, non ho più ricevuto altre doti e ho fatto sempre da paciere e non mi sono mai occupato di droga». Qualche minuto dopo, alle 13, la versione cambia: «Intendo correggere quanto detto prima circa l’ultima dote da me ricevuta; preciso infatti che l’ultima e più alta dote da me ricevuta è stata quella di “santista”, che ho ricevuto negli anni Novanta da Domenico Oppedisano». Cioè da quello che lo stesso Camillò definisce, nello stesso interrogatorio, «un pezzo da novanta della ‘ndrangheta», con il quale ha stretto amicizia «in occasione del ricovero della figlia presso l’ospedale di Vibo Valentia». I gradi mafiosi improvvisamente ricordati dall’anziano “capo” gli sarebbero stati concessi «da Oppedisano presso il suo terreno, eravamo soli io e lui».

Il “pizzino” a casa del figlio e la memoria selettiva dell’anziano boss

Secondo esempio. A Camillò viene chiesto quali siano i rapporti dei propri familiari più stretti con le associazioni mafiose del Vibonese. «Della mia famiglia – spiega – hanno fatto parte della ‘ndrangheta mio figlio Pino (se non ricordo male è stato battezzato da Carmelo Lo Bianco e forse ha la dote dello “sgarro”), suo figlio Domenico (è stato battezzato circa tre-quattro anni fa, non so che dote abbia), Mommo Macrì (battezzato da Andrea Mantella), Antonio Macrì (fino a pochi anni fa ricordo che aveva la “santa”), Domenico Pardea (affiliato alla ‘ndrangheta da molto tempo)». Altra dichiarazione improvvida, smentita qualche minuto dopo perché gli inquirenti sono in possesso di un pizzino che racconta una storia diversa sulla dote del figlio del boss. Che si corregge: «Per come mi fate notare sono a conoscenza del ritrovamento nella disponibilità di mio figlio Giuseppe di un “pizzino” recante la copiata del “trequartino” e prendo atto dell’incongruenza di tale dato rispetto al fatto da me riferito poc’anzi, quando ho detto di ricordare che mio figlio avesse forse la dote dello “sgarro”. Posso solo dire che io non ho approvato la condotta di mio figlio e per questo motivo per un certo periodo non ci siamo parlato. Inoltre tra padre e figlio anche per regola non si parla delle doti ricevute».
Ultimo passaggio che deve aver convinto gli inquirenti a non fidarsi: «Non so nulla di reati commessi a Vibo Valentia (estorsioni, danneggiamenti, intimidazioni e altro), né con riferimento a quelli contestati nell’operazione Rinascita né in generale». Fine del tentativo di collaborazione con la giustizia.

Mantella: «Camillò è uno dei capi dei “Ranisi”. Raccolse 150 voti in cambio di 15mila euro»

Collaboratori che la Dda di Catanzaro ritiene credibili delineano un quadro ben diverso riguardo al coinvolgimento di Domenico Camillò negli affari della ‘ndrangheta di Vibo Valentia. Per il gup sarebbero sufficienti il racconto di Bartolomeo Arena (che di Camillò è nipote) e la citazione dell’anziano durante un cena in casa Lo Bianco per ritenere «accertati» non solo «l’intraneità di Camillò alla “locale” di Vibo Valentia” ma anche il ruolo di vertice» che avrebbe rivestito nella struttura criminale. Conferme arrivano anche da Andrea Mantella.

Andrea Mantella

Per l’ex killer scissionista del clan dei Piscopisani «Camillò è una persona anziana che possiamo considerare uno dei vertiti della famiglia dei “Ranisi” (…) veniva a “Villa Verde” (la clinica cosentina in cui Mantella ha scontato parte dei domiciliari, ndr) e mi faceva dei favori nell’ambito sanitario: in un paio di circostanze mi ha anche portato delle somme di danaro che gli aveva dato Carmelo Lo Bianco quando si trovava ai domiciliari, somme che costituivano la mia parte delle estorsioni per i lavori che venivano realizzati a Vibo». Il pentito – secondo un’interrogatorio riportato in sentenza – spiega che Camillò sarebbe stato coinvolto anche nella raccolta di voti: «Ho dato 15mila euro proprio a Domenico Camillò, che mi ha garantito 150 voti; lui era il rappresentante di una numerosa famiglia, quella dei “Ranisi” appunto, e aveva tanti amici. Dopo le elezioni ci siamo visti e mi ha confermato che i voti erano stati dati a Scopelliti», ex presidente della giunta regionale che non è imputato (né è stato indagato) nel procedimento che ha portato alla sentenza. Un quadro ben diverso da quello rappresentato dall’anziano “capo famiglia” nel suo tentativo di collaborazione con la Dda di Catanzaro. Quadro che verrà complicato dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia imparentati con Camillò: il figlio Michele e il nipote Bartolomeo Arena. (p.petrasso@corrierecal.it)

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