Una parola al giorno, ènan lògo tin imera. La Calabria rischia di morire per i fatti, tanti e dolorosi, che la stanno trasformando in un deserto, una stazione ferroviaria, un capolinea di bus in sola partenza. Noi che ci siamo nati li conosciamo tutti: lavoro, opportunità, sanità, mafia, diseguaglianze, una lista infinita che nutre una diaspora calabrese di più di venti milioni di persone. I fatti sono il vero problema nostro. E la Calabria muore anche di un’immagine che diventa sostanza quando i fatti vengono raccontati in modo sbagliato, per ignoranza, tornaconto o malafede. Ma fatti, soprattutto, e stereotipi sono un cappio che ci strozza, e attribuire colpe non ci salva, e rivendicare torti, anche se legittimo, non ci porta avanti. La nostra storia è una storia di sbagli nostri e altrui. Ne possiamo uscire solo vivendo con responsabilità ogni nostra azione. Ne possiamo uscire se evitiamo gli arroccamenti, se ci diciamo la verità. Ne usciremo costruendo un progetto che la nostra terra non ha mai avuto. Troveremo una via solo costruendo. E un modo per costruire è ritrovare le parole giuste per riannodare i fili di una storia che si è trasformata in cronaca nera. Le parole sono essenziali per un’esistenza collettiva, per essere un popolo, per sbagliare meno. Una parola al giorno e in un anno ci sarà un giardino di parole, una Calabria più vera. Armacia è la mia parola di oggi, perché mio bisnonno, Peppi u Roghudisi era mastro d’armacera e i suoi muri a secco sostengono dopo cento anni falesie terribili in Aspromonte, e pietra su pietra si costruisce un futuro solido.
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