VIBO VALENTIA Un figlio e un nipote descrivono quello che è, per loro, rispettivamente padre e zio. E ne parlano come di uno ‘ndranghetista, il più alto in carica nella città di Vibo Valentia. Bartolomeo Arena, nipote di Domenico Camillò, per spiegare quali fossero i legami del parente con la ‘ndrangheta reggina, svela un retroscena criminale: anni fa, il Crimine di Reggio Calabria avrebbe rischiato una scissione. Perché, al momento di eleggere il “capo dei capi” due clan storici – i Pesce di Rosarno e i Pelle di San Luca – reclamavano la carica per sé. E i primi avrebbero minacciato, se non fossero stati accontentati, di abbandonare l’organismo centrale di gestione delle “famiglie” assieme ad altre 22 ‘ndrine. Così si sarebbe arrivati alla scelta di don Mico Oppedisano come “mammasantissima” della ‘ndrangheta. Una carica portatrice di un potere più formale che sostanziale: a gestire le faccende di peso erano i Pesce, interessati a spostare il baricentro della ‘ndrangheta a Rosarno. Nella macrostoria degli equilibri politici tra le cosche, si inserisce la descrizione delle fibrillazioni nella città di Vibo Valentia, con il tentativo di formare un unico clan che raccogliesse tutti le forze mafiose del capoluogo. Iniziamo dal racconto del figlio.
Non era ancora affiliato, eppure aveva capito – nato e cresciuto in una famiglia di ‘ndrangheta – che suo padre «aveva avuto un ruolo nella creazione del “Buon Ordine” – nel senso che aveva “unito” le varie famiglie di criminali esistenti a Vibo Valentia – per poi fare un passo indietro in favore di Vincenzo Barba». Michele Camillò parla di suo padre Domenico, l’anziano boss posto a capo del nuovo clan unificato di Vibo. Una reggenza breve, secondo il suo racconto. Troppo breve, al punto che «nel 2014-2015 Bartolomeo Arena (ora collaboratore di giustizia come Michele Camillò, ndr) si lamentò con mio padre, in mia presenza che quest’ultimo, dopo essere stato il promotore, per conto del nostro gruppo criminale, della creazione del “Buon Ordine” (…) aveva lasciato il sodalizio nelle mani di Vincenzo Barba». Era Camillò, dunque, a detenere il “bastone del comando” dopo la morte del «leader indiscusso del panorama criminale vibonese» Carmelo Lo Bianco “Piccinni”. L’anziano, infatti, «secondo le regole di ‘ndrangheta, era il soggetto più titolato a Vibo Valentia per reggere le sorti dell’organizzazione». Nonostante ciò, Camillò senior avrebbe «svolto principalmente un ruolo nelle dinamiche associative, senza però arricchirsi, o quanto meno io posso dire che non vedevo entrare nella nostra casa denaro di provenienza illecita; ovviamente so che possedere una carica elevata generalmente significa anche aver commesso reati nel contesto dell’associazione di appartenenza, ma se questo è stato io non ne sono stato messo a conoscenza».
Michele Camillò si inoltra anche nelle ragioni del mancato funzionamento del “Buon Ordine”. Lo fa in un interrogatorio dell’agosto 2020 in cui racconta che al proprio ritorno a Vibo il “clan dei clan” vibonesi si era già scisso. «Pardea – dice – si era separato dal “Buon Ordine” e aveva formato una ‘ndrina sciolta. Devo aggiungere che anche questa situazione presentava degli aspetti critici, pure all’interno della stessa ‘ndrina. Con il passare del tempo, infatti, il funzionamento di questo organismo criminale palesò tutti i limiti connessi alla mancanza di un vero e proprio unico capo». In questo nuovo caotico assetto, il vecchio Camillò «veniva sostanzialmente chiamato in causa solo quando c’era da risolvere qualche controversia, ovvero se c’era da porre rimedio alle condotte sconsiderate di mio nipote Domenico». Torna, dunque, il dato caratteristico del panorama mafioso nel capoluogo: la turbolenza dell’arcipelago ‘ndrangheta vibonese che genera frizioni e accende spesso potenziali micce. Qualcuno che ricomponga i contrasti serve sempre. E Camillò pare avere quel ruolo. All’esterno, invece, i suoi rapporti – sempre secondo il figlio – sono con i fratelli Bellocco di Rosarno «appartenenti all’omonima costa di ‘ndrangheta».
Su questo aspetto interviene il nipote Bartolomeo Arena. L’interrogatorio risale all’ottobre 2019. Arena rievoca un viaggio compiuto assieme allo zio («riconosciuto e rispettato a Polsi») alla “corte” di Domenico Oppedisano, che avrebbe (su questo punto Camillò senior dissente) portato i due a parlare con Giuseppe Commisso “il mastro”, a Siderno, per ottenere il permesso di creare una “locale” a Vibo Valentia. Soltanto Domenico Camillò, secondo Arena, avrebbe potuto guidare il nuovo gruppo, perché «è colui il quale ha le doti più elevate nella provincia di Vibo Valentia, in virtù dei rapporti che intrattiene con gli esponenti di vertice della “locale” di Rosarno, quali Umberto Bellocco e don Mico Oppedisano».
In un altro colloqui con i magistrati antimafia, Arena ribadisce che Camillò è il «massimo esponente di ‘ndrangheta ci sia stato nella provincia di Vibo Valentia negli ultimi trenta anni e attualmente nessuno nella stessa provincia ha una dote pari o superiore alla sua. È amico fraterno di Giuseppe Bellocco di Rosarno, sin dai tempi della latitanza di quest’ultimo (…). Inoltre è conosciuto a Polsi e quindi da tutti i massimi esponenti della ‘ndrangheta».
Camillo, secondo il nipote, «si rapportava per la risoluzione dei problemi con don Mico Oppedisano di Rosarno o in alternativa con Mario Agostino di San Giorgio Morgeto». Arena fornisce informazioni anche su Oppedisano, «il Crimine di tutta la ‘ndrangheta in quanto Pesce “Testuni” pretese il riconoscimento di tale carica a Rosarno, minacciando gli altri massimi esponenti della ‘ndrangheta (quali i Pelle che volevano quella carica), di staccarsi dal Crimine alla testa di altri 22 locali». Questo retroscena criminale spiegherebbe perché Oppedisano, pur formalmente il “mammasantissima” designato della ‘ndrangheta, è sempre stato considerato un “super boss” più simbolico che effettivo. Arena lo spiega subito dopo: «Nonostante ciò, a Rosarno, tuttavia, comandavano – quanto a forza operativa ed economica – più i Pesce che il predetto Oppedisano». Sarebbe stato Francesco Antonio Pardea, altro membro del clan dei Ranisi, a raccontare ad Arena questi brandelli di storia criminale.
Di base, il pentito spiega che nonostante la “locale” formata a Vibo nel 2012 non fosse mai stata riconosciuta a Polsi, i suoi membri di vertice erano considerati «‘ndranghetisti di alto rango» nel “santuario” della Locride. Non ci sarebbe stata, dunque, un’affiliazione formale, ma di fatto. Perché tutti si riconoscevano nelle stesse regole e «nelle copiate delle nostre doti vi erano soggetti della provincia di Reggio Calabria le cui doti erano riconosciute dal Crimine di Polsi. Anche il “Buon Ordine” – continua Arena – è un istituto sempre della stessa ‘ndrangheta, che è previsto dalle regole della ‘ndrangheta di Polsi». Continua questa piccola “lezione” di mafia: «Alla fine la differenza tra un “Buon Ordine” (o “locale” non riconosciuto) e il “locale” riconosciuto non è tantissima, si tratta di due possibili momenti della vicenda criminale di un territorio. Il mancato riconoscimento da Polsi comportava solo una limitazione nei rapporti con le altre “locali” di altri territori, ma si avevano anche meno obblighi, dal punto di vista dell’aiuto che ci si poteva richiedere e anche di tipo economico. Pertanto noi rispondevamo comunque alle medesime regole e alla stessa linea di potere della ‘ndrangheta reggina». Un racconto che richiama all’unitarietà della ‘ndrangheta e alle sue distorte logiche di potere. (p.petrasso@corrierecal.it)
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