«Ormai è chiaro che, come ogni fatto quotidiano, anche il processo penale ed i suoi protagonisti siano valutati e giudicati dalla gigantesca giuria popolare del web che, attraverso la pubblicazione di personali opinioni, post, articoli o ricostruzioni parziali e semplificate, alimenta un incessante flusso informativo che si diffonde in rete senza la possibilità concreta di essere arginato. Del resto, l’attività informativa, un tempo prerogativa del solo giornalista, per effetto della rete, è ora mutata nella sua struttura e nella sua estrinsecazione: le testate giornalistiche non hanno più l’esclusiva sull’attività informativa perché attraverso i blog, i social network ed altri numerosi canali di trasmissione telematica, milioni di utenti in tutto il mondo possono diffondere le notizie in tempo reale, produrre istantanei contenuti audiovisivi, commentare i fatti di cronaca, a volte anticipando anche i giornalisti ed immettere nel circuito informativo anche le così dette fake news. Si viene a creare così un groviglio di informazioni, in cui chiunque – tornando al processo penale – pur non conoscendo nulla dell’argomento, tantomeno di diritto o di rito processuale, men che meno degli atti di causa, esprime in modo incontrollato ed emotivo il proprio giudizio in merito alla colpevolezza o meno del soggetto coinvolto, al buon operato dell’autorità giudiziaria, alla attendibilità dei testimoni ed alla validità delle prove. Argomento preferito poi, sono gli Avvocati difensori, spesso colpevoli di ostacolare il corso della giustizia per il solo fatto di esercitare la loro funzione. L’autorevolezza dei giudizi sprezzanti del web per gli utenti, è giustificata del resto dall’asserito esercizio della libertà di pensiero, mentre la cornice digitale all’interno della quale esso si trova produce un arbitrario effetto di garanzia. Ed ecco che in questo disastro, il caso della uccisione della piccola Elena Del Pozzo sfiora a mio avviso la pornografia giudiziaria, intesa come diffusione di un contenuto osceno la cui pubblicazione è finalizzata solo all’eccitazione dei fruitori. Mi chiedo, infatti, quale utilità abbia avuto in questa vicenda la violazione del segreto istruttorio, se non quella di far prevalere l’intenzione di sconvolgere e condizionare la coscienza collettiva sul diritto di cronaca. I cittadini, infatti, non solo sono stati costretti a subire la lettura dei particolari di una autopsia appena eseguita sul corpicino di una bimba e per la quale i consulenti tecnici procederanno al deposito della risposta tecnica fra 90 giorni, ma anche l’ennesima personalissima ricostruzione dell’omicidio nei minimi dettagli. L’effetto di tale agito è evidente, e si misura con la reazione sui social, dove i commenti di odio si sono spostati dalla madre indagata ai professionisti che a vario titolo si occupano della vicenda, anche solo se interpellati per un parere tecnico e asettico. Infatti, lo sciame digitale – la definizione è del filosofo coreano Byung Chul Han -, dunque il brusio virtuale che agita la rete e che spinge le persone a condividere messaggi di odio, ha oggi più che mai come oggetto gli avvocati, i consulenti e gli esperti e non più – come se già non fosse abbastanza allarmante – il presunto autore del crimine. Se si ripercorre, dunque, l’attuale contesto di rapporti tra “giustizia penale” ed informazione giudiziaria e la molteplicità di problemi che si raccolgono attorno al sintagma “processo mediatico”, l’impressione è che la situazione già da tempo fortemente critica, oggi stia ormai precipitando. Il profondo disequilibrio pare, infatti, essere ormai bel oltre le difficoltà di bilanciare le esigenze connesse da un lato alla tutela dell’informazione giudiziaria e della libertà di informazione e dall’ altro al diritto di ciascuno di veder tutelata la propria reputazione, nonché di avere un equo processo in tutte le sue declinazioni, a partire dalla presunzione di innocenza. L’impressione è, purtroppo, che “lo sciame” si agita ormai nel senso di far sì che offese e parole stigmatizzate a livello sociale come “mamma assassina”, vengano liberate alla prima occasione utile in rete, affrancando al contempo la carica di violenza che nel virtuale non può portare – apparentemente – all’atto concreto ma che invece nutre stereotipi, deumanizza e alimenta la deresponsabilizzazione sociale».
*Avvocato
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