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La battaglia del collaboratore per la figlia: incontri più lunghi e in luoghi aperti al pubblico

Rigettato il reclamo di avere l’affido esclusivo della bambina. Positivo il profilo delineato dai giudici: «Recisi i legami con l’ambiente criminale»

Pubblicato il: 22/06/2022 – 10:02
di Alessia Truzzolillo
La battaglia del collaboratore per la figlia: incontri più lunghi e in luoghi aperti al pubblico

ROMA Un piccolo passo avanti, impercettibile quasi, ma, nel merito, positivo per il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, 34 anni. La Corte d’Appello di Roma, sezione persona e famiglia, ha rigettato il suo reclamo per ottenere l’affido esclusivo della figlia di quattro anni ma ha giudicato positivamente il suo profilo e ha disposto che «gli incontri tra la minore ed il padre possano avvenire, oltre che nello spazio neutro al chiuso, anche in luogo aperto al pubblico e per un arco temporale superiore a quello attuale, accompagnati dalla presenza di assistenti sociali e nel rispetto di ogni cautela necessaria ad assicurare l’incolumità della minore». Tra l’altro la Corte «rimette alla valutazione del Servizio Sociale la facoltà, in un secondo tempo, di consentire detti incontri anche senza la presenza di suoi operatori». Uno spiraglio di libertà, nel rapporto padre-figlia, la battaglia forse più dura che il collaboratore sta portando avanti da quando, a giugno 2018, ha deciso di recidere ogni contatto con la famiglia di mafia nella quale è nato, i Mancuso di Limbadi.
Emanuele Mancuso ha cominciato a collaborare con la giustizia una settimana prima nascesse sua figlia. Lui era stato arrestato nel corso dell’operazione “Nemea” con l’accusa di tentata estorsione e danneggiamento. La sua compagna, Nensy Vera Chimirri, 30 anni, non lo ha seguito in questa scelta, al contrario, una sentenza in abbreviato del 5 marzo 2021 la condanna a 4 anni di reclusione «per i reati di violenza privata e favoreggiamento personale aggravati dal metodo mafioso quali condotte esercitate al fine di costringere Emanuele Mancuso a ritrattare le dichiarazioni rese e abbandonare il percorso di collaborazione». Secondo l’accusa, la donna ha tramato con la famiglia del collaboratore usando la piccola appena nata come arma di ricatto per farlo tornare sui suoi passi. 

«Reciso ogni legame con l’ambiente criminale»

La bambina, nata a giugno 2018, è stata inserita nel programma di protezione a maggio 2019. Un programma al quale la madre non ha inteso aderire. Solo in seguito alla decisione del Tribunale per i minorenni di Catanzaro, il 31 maggio 2019, di dare in affidamento la bambina ai Servizi sociali, ha deciso di seguire la figlia pur non aderendo spontaneamente allo speciale programma di protezione nel quale è stata ammessa de plano dalla Commissione centrale. Dunque, per legge, la bambina è affidata al Servizio sociale e vive in una casa famiglia con la madre alla quale di recente è stata revocata l’ammissione al programma di protezione. Lo ha deciso la Commissione centrale con una delibera del 20 aprile 2022. Una situazione complicata, delicata e precaria. Anche perché il prossimo 6 luglio scadranno i termini per impugnate la delibera della Commissione centrale davanti al Tar e contestualmente la madre dovrebbe lasciare la dimora protetta come da nota del Ministero dell’Interno, Programma centrale di protezione, del 5 maggio 2022. 
Il padre – il quale ha sempre affermato con forza di avere deciso di collaborare per assicurare a sua figlia un futuro lontano dal pantano delle cosche mafiose – ha più volte lamentato, attraverso il proprio legale Antonia Nicolini, la scarsa qualità e quantità degli incontri con sua figlia: 50 minuti alla settimana in uno “spazio neutro” ovvero in una struttura scelta dai Servizi sociali, un luogo fatiscente e triste, che mai potrebbe favorire la gioia di un incontro. Come si fa a conoscersi? A crescere insieme, instaurare un dialogo e un rapporto d’affetto con 50 minuti alla settimana e in un luogo lugubre?
Da oggi c’è la speranza che quel luogo possa essere un parco, una gelateria, un posto nel quale possa vedere sua figlia serena e sorridente e per più tempo.
Secondo i giudici della Corte d’Appello di Roma, Emanuele Mancuso «a distanza oramai di diversi anni dalla sua scelta di collaborare con la giustizia, ha mostrato di aver reciso ogni legame con l’ambiente criminale di provenienza seguendo il percorso di riabilitazione sociale definito col programma di protezione cui è stato sottoposto. Così pure riguardo la sua precedente condizione di assuntore di sostanze stupefacenti, deve riscontrarsi che egli ha depositato plurimi certificati medici rilasciatigli dalle strutture pubbliche di riferimento attestanti la sua perdurante mancata assunzione di droghe». Piccoli passi in avanti nell’unico desiderio di un padre: quello di non vedere mai sua figlia piegata alle logiche mafiose, una figlia che comprenda le scelte di suo padre e la lotta che conduce testardamente.
Secondo la Corte «si impone tuttora l’affido della minore al Servizio Sociale attesa l’alta conflittualità che ancora permea le relazioni tra i suoi due genitori, come riferito nelle relazioni in atti e come ancora emerso dal loro contraddittorio in questa sede giudiziale. Ciò è poi suggerito anche dalle fragilità rilevate dal Servizio sociale che ha suggerito per entrambi i genitori un percorso di sostegno alla genitorialità, da effettuarsi possibilmente attraverso un lavoro di mediazione familiare».

Le considerazioni delle parti in causa

Nel reclamo proposto per ottenere l’affidamento di sua figlia, Mancuso, attraverso le note redatte dal proprio legale, ha sottolineato le conclusioni della Procura generale di Roma nell’atto del 6 maggio 2022 con il quale viene specificato che «non sussiste più alcuna ragione che impedisca a Emanuele Mancuso di riprendere la funzione genitoriale con conseguente revoca della disposta sospensione della responsabilità genitoriale».
Il legale spiega come il 21 maggio scorso sua figlia di 4 anni, nel corso di una videochiamata, abbia avuto un atteggiamento di rifiuto nei confronti del padre affermando di non voler parlare con lui ma di volere parlare con «l’avvocato». Nella nota si parla di «indottrinamento della minore a comportamenti di rifiuto nei confronti del padre»; si sottolinea come Nensy Vera Chimirri, oltre alla condanna a 4 anni, sia imputata in un processo per il reato di estorsione aggravata dalle modalità mafiose; si sottolinea il fatto che ha commesso furto aggravato un un negozio nella località protetta; di avere creato un profilo Facebook, mentre era in località protetta con la figlia, aggiungendo tra gli amici familiari stretti e appartenenti alla criminalità organizzata del Vibonese; di avere attivato un canale Telegram con la possibilità di chattare in segreto con i propri contatti. Insomma Emanuele Mancuso fa mettere nero su bianco che la sua ex compagna non si è mai affrancata dai contatti criminali in Calabria. Dal canto suo la 30enne ha affermato «di non utilizzare alcun account social da quando nel giugno 2019 era stata inserita nel programma di protezione», puntando il dito contro Mancuso e affermando che questi «nell’impugnare tutti i provvedimenti emessi nell’interesse della figlia non aveva mai perso occasione per denigrare la ex compagna, odiata per non aver condiviso la sua scelta di collaborare con la Giustizia, in realtà compiuta nel primario interesse di salvaguardare l’interesse della figlia».
Il curatore speciale della bambina ha espresso, invece, «la necessità di un lavoro di mediazione familiare che consentisse ai genitori della minore di superare, nell’interesse di quest’ultima, la conflittualità tra gli stessi tutt’ora esistente». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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