CATANZARO Due secondi. Tanto è durata l’esplosione di tre colpi, da una pistola a tamburo, che la notte del 9 agosto 2016 hanno ucciso l’avvocato Francesco Pagliuso mentre si trovava all’interno della propria Wolkswagen Touareg, appena rientrato nella propria abitazione di via Marconi a Lamezia Terme. A freddare il noto penalista quarantenne, dopo essersi introdotto nel giardino della sua abitazione, è stato, secondo l’accusa, Marco Gallo, classe ’85, (31 anni all’epoca dei fatti). A condannare l’imputato all’ergastolo è stata una sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Catanzaro, presidente Alessandro Bravin, il 22 dicembre 2021.
Il killer, è scritto in sentenza, ha agito per conto di Pino e Luciano Scalise, padre e figlio. La Corte lo mette nero su bianco che «l’omicidio in parola deve ricondursi agli attriti innescatisi tra il legale e la famiglia Scalise».
I rapporti degli Scalise con l’avvocato Pagliuso si erano incrinati nel tempo sempre di più tanto che lo stesso legale era venuto a conoscenza di una «cosiddetta lista nera stilata dalle famiglie Scalise, Vescio – lannazzo, in cui erano indicati i nominativi di tre persone da eliminare: Luigi Aiello (ucciso il 21 dicembre 2014), Domenico Mezzatesta e Francesco Pagliuso». Tutti testimoni, durante il processo, hanno affermato di avere appreso da Pagliuso dell’esistenza di questa minaccia che incombeva sul suo capo. Gli Scalise non lo amavano per una serie di ragioni. L’avvocato era stato, fino a gennaio 2013, il difensore di Pino e Daniele Scalise, quest’ultimo morto in un agguato mafioso rimasto irrisolto. «I rapporti tra il legale e la famiglia Scalise, tuttavia, si erano incrinati a seguito della consumazione del duplice omicidio di Francesco Vescio e Giovanni lannazzo (in Decollatura in data 19 gennaio 2013), allorquando Pagliuso aveva accettato di difendere gli autori di quel delitto, che erano stati individuati in Domenico e Giovanni Mezzatesta, ai quali il Pagliuso era pure legato da un rapporto di amicizia». Vescio e Iannazzo erano legati agli Scalise e, pochi giorni dopo il delitto, visto che Domenico Mezzatesta si era dato alla latitanza, Pagliuso aveva ricevuto nel proprio studio la visita di Pino Scalise che lo metteva in guardia «in ordine al fatto che “loro … quelli là” lo pedinavano in occasione degli incontri che lo stesso intratteneva con il latitante Domenico Mezzatesta». Insomma, gli Scalise accusavano Pagliuso di coprire la latitanza di Mezzatesta, dimentichi che durante la latitanza di Daniele Scalise – tra la primavera del 2012 e quella del 2013 – «quest’ultimo aveva incontrato Pagliuso Francesco presso lo studio dell’avvocato Larussa; le modalità con cui era stato organizzato il suddetto incontro, non erano state assolutamente condivise dal legale Pagliuso, il quale aveva manifestato immediatamente e palesemente il proprio disaccordo».
«Qualche tempo dopo, sempre durante la latitanza di Scalise Daniele, il Pagliuso era rimasto vittima di minaccia di morte in un bosco, ove dopo essere stato prelevato e bendato, era stato condotto al cospetto dello stesso Daniele Scalise, nonché di Giovanni Vescio e Francesco lannazzo, i quali si mostravano convinti del fatto che il legale non avesse predisposto una difesa adeguata in favore di Scalise Daniele in un procedimento penale pendente a suo carico. Nel giugno 2016, la Suprema Corte di Cassazione annullava l’ergastolo precedentemente ottenuto dai Domenico Mezzatesta e Giovanni per il duplice omicidio Vescio – lannazzo, in accoglimento del ricorso dell’avvocato Pagliuso, che mirava ad escludere la contestata aggravante della premeditazione; tale risultato aveva innescato forti timori nel legale, il quale aveva confidato ai suoi familiari di essere un prossimo condannato a morte».
Una serie di elementi mersi dalle indagini riconducono ai rapporti tra Marco Gallo e gli Scalise.
Vi è la testimonianza del «cugino dell’imputato, Danilo Floro, il quale in diverse occasioni aveva avuto modo di constatare personalmente che il Gallo frequentasse Luciano Scalise di Decollatura, con il quale aveva pure instaurato un rapporto di natura confidenziale, del pari con la moglie di questi, Antonella Molinaro». Nel corso della perquisizione dei carabinieri a casa di Marco Gallo erano emersi diversi elementi che dimostrano «l’esistenza di stretti rapporti tra questi ed il Gallo, spiegandone anche la natura». Tra questi, un testamento olografo aventi luogo e data Falerna 12 giugno 2016 (due mesi circa prima dell’omicidio), nel quale Marco Gallo asseriva che una polizza da lui rinnovata annualmente in caso di morte dovesse essere «ritirata in modo integrale solo ed esclusivamente da Luciano Scalise, nato a Catanzaro il 30.8.1978 e suoi eredi (esclusi tutti i miei familiari). E che disponga lui come meglio crede del terreno da me acquistato nell’anno 2015/2016». Senza contare sei fogli di buoni fruttiferi postali dal valore di 26mila euro e 14 milioni di lire intestati agli zii di Luciano Scalise; una foto commemorativa del defunto Daniele Scalise.
Inoltre i dati gps «documentano come il Gallo frequentasse con continuità luoghi riferibili alla famiglia di Luciano Scalise, in particolare l’abitazione e il bar “Reventino” di proprietà di quest’ultimo (dove era avvenuto l’omicidio di Vescio e Iannazzo da parte dei Mezzatesta, ndr), oltre ad intrattenere costanti colloqui telefonici con lo stesso Luciano Scalise e la di lui moglie, nonché con i loro stretti congiunti».
La Corte sentenzia che «sulla scorta di tali elementi, è plausibile che il Gallo abbia ucciso Francesco Pagliuso su mandato del “gruppo criminale Scalise”, in ragione anche del fatto che l’odierno imputato non aveva personali motivi di astio e nemmeno preconoscenza, diversamente dalla famiglia Scalise».
Ma c’è un “ma”. La Corte ammette l’aggravante della premeditazione ma non l’aggravante mafiosa, sostenendo che tale aspetto resta indimostrato perché «non esiste sotto il profilo giudiziario sentenza irrevocabile attestante resistenza di una cosca mafiosa denominata Scalise ed i precedenti giudiziari prodotti dalla pubblica accusa sono affatto neutri».
«Quanto al contestato “metodo mafioso”, le modalità intrinseche dell’azione non valgono a connotare la condotta nei termini ritenuti dall’accusa, tanfè che la stessa imputazione si risolve in una tautologia (“tìpica esecuzione mafioso”), né la modalità mafiosa può trarsi dalla eventuale causale “mafiosa” – rimasta peraltro come detto indimostrata – che agisce sotto il versante della finalità e non può prestarsi a duplicazione di significati qualificativi», è scritto in sentenza.
Al momento, a supportare l’aggravante mafiosa vi è la sentenza, in abbreviato, di primo grado che condanna all’ergastolo Pino e Luciano Scalise quali mandanti dell’omicidio Pagliuso.
Secondo il gup Pietro Carè il movente del delitto risiede nella vendetta per i «caduti della cosca (Daniele Scalise, Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo)». Il gup ritiene che gli elementi di prova «consentono di affermare l’esistenza, nel territorio del Reventino, di un’organizzazione criminale identificabile come clan Scalise, avente le caratteristiche descritte dall’articolo 416bis, ossia un’associazione a delinquere che, per realizzare i propri illeciti fini si avvale della forza di intimidazione nascente dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne derivano». Non solo. Dalla sentenza “Reventinum” emerge come durante il funerale di Giovanni Vescio, il padre del ragazzo si rivoltò con Pino Scalise. Gli avrebbe detto: «Pino, mio figlio è morto per colpa di tuo figlio, quindi è meglio se te ne vai di qua». A questo punto Pino Scalise avrebbe replicato promettendo vendetta: «Non vi preoccupate che i vostri figli li vendicherò io». E aggiungendo: «Ce n’è pure per l’avvocato».
Alla luce di questi dati non è difficile immaginare che sull’aggravante vi sarà impugnazione della sentenza. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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